TESTI NEL DIALETTO GALLOITALICO AIDONESE
Disg' favul' d' FEDRO a dadunìsa (Dieci favole di Fedro all'aidonese)
“Gghj-era na vota e gghj-è simpr’ ... Fedro" Nell'anno scolastico 1996 /1997 insegnavo alla Scuola Media Statale "Filippo Cordova di Aidone e con gli alunni dell'allora classe III sez. B, con il sistema del brainstorming, abbiamo dato luogo a queste gustose trasposizioni (non si può parlare di traduzioni vere e proprie) di dieci tra le favole di Fedro più conosciute in dialetto galloitalico aidonese. Alla raccolta abbiamo dato il nome "C'era una volta e c'è sempre...Fedro. Qui sotto si può scaricare il file.
TESTI AIDONESI "LETTERARI"
Ho scelto i seguenti brani per dare un esempio significativo, pur nella brevità, della condizione particolare del dialetto aidonese, che, da almeno un secolo, presenta in maniera netta e cosciente a tutti i parlanti due varianti: quella vernacolare, più vicina alle altre parlate galloitaliche di Sicilia, e quella sicilianizzata, che del galloitalico originario ha mantenuto quasi esclusivamente il troncamento della vocale e in posizione finale e atona.
Le poesie che presento denunziano questa situazione già all’inizio del secolo (ho tralasciare le strofe che risultavano troppo legate a situazioni locali e contingenti e mi sono attenuta strettamente alla scrittura originale).
I brani appartengono ai rappresentanti più significativi di quanti si sono cimentati nell’opera improba di scrivere in aidunis’. Di tale difficoltà ci parla lo stesso Vincenzo Cordova, il più prolifico tra tutti, nella poesia introduttiva del suo libretto, intitolata appunto “Vernacolo aidonese”, quando dichiara
“ P’ fè na puisia aidunisa / sau ggh’ n’ vo nto pignattingh / fucusita divira ièja sta mprisa….. – e poi - …. Nzina ch’ fa virsitt siciliaj / e fors’ fors’ ch’ gghià po spuntè: / cudd ssu cos’ a purtara d’ mai / e ogn’ tint’ scecch’ i po ncucchiè . // Ma p’ putir scrivr’ aidunis’ s’ ghhiada studier giurn e nujtt’…(per fare una poesia aidonese ce ne vuole sale in zucca, è veramente un’impresa improba…finché scrivi versi in siciliano magare ce la spunti, quelle sono cose a portatoa di mano e ogni asino ne è capace. Ma per poter scrivere aidonese si deve studiare giorno e notte!) – . – e infine confessa che per la scrittura ha fatto tesoro dell’opera del piazzese Remigio Roccella di cui, oltre alle raccolte di poesie in vernacolo piazzese, citate dal Cordova, si conosceva il “Vocabolario della lingua parlata a Piazza Armerina” , - …Se ungh’ vo rinniscir’ nto ntint’ / ada studiè un ddibbr’ d’ Ruccedda; / D’ cudd’ nan gh’ nèja vers’ tint’, / ddizzìll’ prich’ ssu na cosa bedda. ” (se uno vuole raggiungere l’intento deve studiare il libro di Roccella; di quello cnon ci sono versi cattivi, leggili perché sono una cosa bella).
Il primo tra i brani qui presentati è di Antonino Ranfaldi e l’interlocutore è il suo omonimo, Antonino Profeta Ranfaldi apprezzato sindaco dell’epoca, lo stesso a cui si riferisce Cordova quando parla “ du patruzz’ ch’ ta mort’ ”. Ranfaldi mette in evidenza che il vernacolo era la lingua dei campi, degli affetti , il siciliano quella cittadina riservata alla piazza e ai rapporti sociali in pubblico.
Di Vincenzo Cordova (nipote del famoso statista Filippo e cugino dell’omonimo Vincenzo, anch’egli senatore e ministro del Regno, il parente povero e la pecora nera della famiglia) , che si dilettava di musica e poesia per lo più satirica, ho riportato, con qualche taglio necessario, due brani che hanno lo stesso argomento, il dolore e la frustrazione per le disastrate condizioni di Aidone alla morte del sindaco Profeta Ranfaldi. Il primo brano “Aidungh’ fu e ciù nan è” è scritto in vernacolo, il secondo “Paisedd bannunat ”, è invece scritto nella forma sicilianizzata.
Di quest’ultimo esiste una seconda versione addiritura in siciliano, che a ben guardare si differenzia quasi esculsivamente per l’aggiunta delle vocali finali ( in genere -u o -i) e in posizione atona.
L' ultimo brano, è “ P’ccà “ di Francesco Consoli, in genere anch’egli poeta satirico e qui invece tenero poeta romantico.
Insieme a Cunsigghj' a na carusa maira di Vincenzo Cordova sono per gli aidonesi quasi l’ ‘O sole mio’ di quella che sentono ancora come la lingua della propria identità, identità e peculiarità che per altri versi si è cercato e si cerca invece in tutti i modi di rimuovere, dal momento che viene percepita come elemento di allontanamento e di disturbo nella comunicazione con i vicini.
Antonino Ranfaldi (1868-1945) da : “Sunett’ ca cuva” * (28giugno 1902)
A ddinga ch’agn’ giurn us’ â v’rsura
Nan eja com- a cudda c’tatìna:
Tu l’àj-a p’rdunè sa sta matina
ô mirt’ to s’ ‘ncula cû russura.
Nan è, com a tuscana gran s’gnura;
Idda ‘ntesta s’ ‘ntruscia a mant’lina.
Nan vo tras’r, no, dâ to purtina
O scianch a l’om vo r’stè â v’rsura.
P’ fer’la r’vè za sta via
Rann ha stait u b’sogn ch’à s’ntùit:
O to n’mich’ sa parra s’ ggh’ vìa !
……………………….
*Giorgio Piccito, “Testi aidonesi inediti o ignorati”, da L’Italia Dialettale, 1962
P'ccà
P’ccà sa gran carusa !
Ch’è bedda, ch’è sciaurara !
E pui, ch’è g’niusa,
pulita e ‘ns’gnurara !
Cu ‘ntutt’ ch’à i parint’
d’ bascia cugn’ziungh’,
cumparsa fa, o pr’sint’,
d’a figghia d’u barungh’!
Ch’ ugg’ ! Sa talìa,
fa r’v’nir’ i mort’,
e sadd’ i mal’zìa
fa dritt’ i ciunch’ e’ i tort’
E pui quann’ s’i strinz’
E mint’ a pampanedda…
Idì…,quann’ ggh’ pinz’
M’ codd’ a vavaredda !
M’ sint’ a r’mudder’,
fè ‘u curi a ticch’ e tocch’,
nan pozz’ ciù parrer’,
je par tunn’ locch’ !
Ma porch’ d’ ddu munn’,
cu ggh’ putìa p’nzer’
ca d’un murtizz’ tunn’
s’avia ‘nnamurer’ ?
Ddair’, maufait’ e lisc’,
ciù ddair’ d’un sc’mmiungh’,
nn’i gamm’ è tisc’- tisc’,
je brazz’ à d’ scrup’jungh’ !
E non ggh’è ciù r’par’….:
s’u mis’ ù chiacch’ o’ codd’ !
Gioja, t’sor’ rar’,
p’ ti d’vint’ fodd’!
Francesco Consoli 1903
da: Giorgio Piccito, “Testi aidonesi inediti o ignorati”, da L’Italia Dialettale, 1962
Peccato per questa grande ragazza! Quant’è bella e profumata!/ e poi quant’è simpatica e signorile!/ Nonostante abbia genitori di estrazione umile/ al presente fa la figura della figlia di un barone./ Che occhi, il suo sguardo fa resuscitare i morti e se poi lo fa con malizia fa diventare dritti e paralitici e gli sciancati! E poi quando li stringe mettendoli a pampinella, oddìo …quando ci penso me ne vado in deliquio!/ Mi sento venir meno, il cuore batte all’impazzata, non riesco più a parlare, e sembro del tutto scemo!/ Ma mondo porco, chi poteva immaginare che andasse ad innamorarsi di un pezzo di cadavere?Brutto, malfatto, liscio, più brutto di uno scimmione, le gambe sono……..e le braccia come quelli di uno scorpione!/ E non c’è più riparo….si è messo il cappio al collo! Gioa, tesoro raro, per te divento folle!