Anna Milazzo: Cuentos

Es un soplo la vida

Basta ascoltare il soffio per capire le emozioni, le speranze, le energie che rompono il silenzio del mondo.

E non sempre è uguale, e non per tutti è la stessa cosa anche se siamo immersi nella stessa terra, nella stessa casa o nello stesso letto.

Ma si può essere contagiati dal soffio di qualcun’altro, di un uomo, di un bambino, di un vecchio e persino da quello di un animale.

Sì, di un animale come Maia la mia cagnolina che con il suo soffio mi trasporta nel mondo dell’infanzia, del gioco, della vita e anche dell’incoscienza.

Quante volte quando esco con lei mi preoccupo di non essere travolta dal suo soffio impetuoso, dalla sua frenesia di scorrazzare nei prati o di cavalcare nelle acque di un ruscello?

E’ tempestosa, vibrante, impulsiva; non si può rimanere impassibile al suo soffio.

Maia, una volta sciolta dal guinzaglio, corre a scavezzacollo, inseguendo tutti gli uccelli che si trovano in quel momento a cercare cibo fra l’erba e quando loro sono costretti a volare per difendersi, si rivolge a me e abbaia.

E’ solo un Bau!

Vuole dirmi “guardami come sono brava “e i suoi occhi di lupetta scintillano dalla gioia.

Anche quel Bau è un soffio, accompagnato da un’emozione o da più emozioni: gioia, soddisfazione, richiesta di riconoscimento.

Adora strusciarsi sulle margherite bianche, lei tutta nera, con quel pelo setoso, lucido, gli orecchi vellutati, il battufolino bianco sul petto e le zampine spruzzate di nevischio.

Si rotola, si stropiccia la schiena mettendo in bella vista i bottoncini delle sue mammelle e la fragolina fra le cosce, trasformando il suo soffio in una melodia intrisa di piacere, di innocenza e di semplicità.

Sono tentata di fare come lei, di strusciarmi sulle margherite o sulle viole, impregnandomi della fragranza dell’erba fresca e sentirmi tutt’una con la terra.

Ma anche a questo ci pensa Maia con il suo soffio. Attende che io sia seduta e magari distratta per venirmi addosso come un razzo, buttandomi per terra per giocare insieme, io sotto e lei sopra, perché lei è dominante.

Il suo impatto sul mio corpo è un soffio vigoroso, vitale che prende il suono di un ringhio giocoso.

Siamo due cucciole che giocano e si rotolano, non ci sono più confini e non c’è nemmeno tristezza perché Maia non lascia spazio al respiro affannoso di un’emozione cupa. L’affanno è per il gioco di entrambe, per gli attacchi di lei su di me e per le sue finte fughe.

Ma anche lei viene contagiata dal soffio della brezza che la rinvigorisce, la richiama a seguire il suo respiro.

Lei si adegua, segue il soffio del vento, lo sente entrare nel suo pelo che viene scomposto. Maia sembra una punk, ride con gli occhi, si ferma con il vento che sbatte sul suo muso affilato e si mette in posizione di sfida, così per avvertirlo che lei si girerà e correrà con lui, nella stessa direzione e il suo soffio la farà arrivare per prima al traguardo.

Per lei non esiste differenza fra gli elementi della natura, gli uomini e gli animali. Può giocare con tutto e persino il sasso diventa il suo tesoro da portare a casa per custodirlo.

Il respiro della brezza increspa le acque limpide del fiume. Maia non resiste, s’immette in quel lussurioso liquido ma non si adegua al soave soffio. Lei cavalca seguendo il suo soffio interno, la sua passione, la sua incoscienza. La mia incoscienza che mi portò al largo, lontana dalla riva, seguendo il mio respiro di bambina, in mezzo al mare dove non arrivavano le grida di mio padre costringendolo a seguirmi.

Cascò in un mulinello, quel mare è traditore, ma io non lo sapevo. Sulla riva, quando finalmente mio padre mi raggiunse, sentii il suo soffio affannato, contratto, ma lui mi disse soltanto: “Sai credevo di non rivederti più, sono cascato in un mulinello” e il suo respiro piano piano si regolarizzò mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime.

Maia ora è più giudiziosa, sa che quando entra nell’acqua io ho bisogno di essere rassicurata, perciò fra una cavalcata ed un’altra trova il modo di dirmi BAU, “ci sono”.

Così come vuole essere anche lei rassicurata se io dormo un po’ di più.

Si avvicina al mio letto, appoggia le sue zampine e le sue orecchie cercano di captare il mio respiro. Rassicurata torna alle sue cose, ma dopo poco ritorna e mi sfiora con una zampina. Le bastano poche parole “Maia fra poco mi alzo” e lei se ne va.

Poi ritorna più decisa, la sua zampetta mi graffia e lei piange finchè non mi alzo. Ha bisogno di sentire la sintonia dei nostri respiri.

Talvolta quando l’aria annuncia un temporale estivo entrambe entriamo in fibrillazione, un’euforia si impossessa di noi e ci costringe ad uscire, a correre per poi tornare grondanti e infreddolite.

Eppure entrambe in solitudine abbiamo vissuto l’abbandono in mezzo alla pioggia, ai tuoni e ai lampi e siamo rimaste segnate da questa esperienza.

Ma quando siamo insieme non abbiamo paura, i nostri respiri affannosi si adeguano per giocare. Chi dà la tonalità gioiosa sotto la pioggia? Non lo so. Non importa.

Finchè saremmo insieme il temporale sarà un impulso vitale, un connubio con la natura, un pretesto di vicinanza giocosa.

L’erba è alta, Maia si inoltra in quello che a lei può sembrare una giungla. Lì non corre, lì saltella come una cerbiatta e cerca, trova, si impegna a catturare un soffio nascosto nell’erba.

Ciò che si scorge di lei sono le sue orecchie appuntite.

Fa una buca nel prato, ogni giorno è più profonda, chissà quale soffio sente? Lei è molto curiosa e caparbia, insiste a scavare, il suo corpo è tutto dentro la buca, rimane fuori solo la sua codina riccia.

Quando esce è tutta avvolta in una nube di polvere. Anche oggi dovrò farle il bagno. E anche quello è un gioco, è lei che lo fa diventare un gioco.

Si potrebbe dire che “ha soffio da vendere” e per questo la sua presenza è vitale per tutti.

 

Papà diceva sempre “quanta forza ha!”

Per lui la forza era tutto, era possibilità di lavorare, di mantenere la famiglia, di dedicarsi alla sua passione per l’orto. “I fagiolini quest’anno sono speciali”-diceva con orgoglio.

“Se non piove si rovina la verdura”- è questo per lui costituiva una grande preoccupazione.

Quell’orto richiedeva tanto fiato, ma per lui non era sprecato.

Ricordo il giorno in cui i medici dell’ospedale mi dissero: “Suo padre vivrà due, tre mesi al massimo”. Mi ero accorta che il suo soffio aveva perso quell’ intensità di sfida al tempo.

Cercai di preparare la famiglia. Tutti negarono. “E’ solo un piccolo disturbo, non vede l’ora di tornare ad occuparsi del suo orto”!

Eppure qualcosa scattò in mia madre perché mentre dormiva, sorvegliava il respiro di mio padre.

Poi la telefonata nel cuore della notte:“Mi sono accorta da un soffio diverso, è stato un attimo”.

Maia andava alla sua bara e si alzava con le zampine per cogliere un soffio. Niente. Tornava e nuovamente cercava di percepire un alito. Alla fine si rassegnò.

Io no!

Quando si avvicinò l’anniversario della sua morte sentii la rabbia per quella scelta. Per non aver voluto un luogo fisso, una tomba, un’urna dove poter parlargli, raccontargli le cose che non ho mai detto, belle e brutte.

Ma quella mattina mi si presentò nitida l’immagine di mio fratello che rovesciava le sue ceneri in quella lingua sottile di acqua. Sopra l’acqua una nube grigia si confondeva con l’aria.

Mi alzai presto e mi avviai verso il ruscello vicino a casa. C’era ancora una nebbia trasparente che si alzava sopra l’acqua.

Sciolsi Maia e mentre lei correva nell’acqua, io affondavo nella sottile tela grigia.

Tornammo sfinite, lei con la lingua penzoloni e il respiro affannato, io intrisa di sudore e di polvere d’argento.

Es un soplo la vida…….un soffio impregnato da tante vite…….un soffio di emozioni senza tempo e senza luogo.

 

El ceibo e il jacarandà

Fra il popolo guaranì viveva un’indiana piccola e piuttosto bruttina dal nome Anahì.

Nei pomeriggi estivi la sua voce dolce e cristallina riempiva d’incanto l’intera tribù.

Sentendo quella voce melodiosa, gli spagnoli si avvicinarono con cautela e con i loro fucili uccisero molti indios e ne catturarono altri, fra i quali anche Anahì.

Gli spagnoli stavano conquistando palmo a palmo le terre rigogliose dei popoli che vivevano sulla riva dei fiumi Uruguay e Paranà.

Dopo avere ucciso gli abitanti di queste terre, si insediavano con i loro prigionieri e li utilizzavano come schiavi per la coltivazione e la costruzione di città fortificate.

Anahì lavorava duramente il giorno e piangeva la notte.

Anche il suo pianto era melodioso nonostante la grande tristezza; sembrava il canto di una sorgente.

Mentre la luna si rispecchiava nel fiume, venne attratta da quel pianto e, avvolta dalle nuvole per non farsi riconoscere, scese a terra dove il vortice amaro di un sentimento umano la fece tremare.

Con cautela si avvicinò a Anahì e, vedendola prigioniera, l’avvolse con il suo manto notturno e la portò con sé lungo la riva opposta del fiume.

La notte seguente gli spagnoli si accorsero dell’assenza di Anahì: mancava il suo pianto.

Avrebbero fatto a meno delle sue braccia ma, notte dopo notte, sentirono un vuoto sempre più profondo che li privò del sonno.

Si resero conto che, se non dormivano, la loro forza si sarebbe indebolita e forse non sarebbero stati capaci di difendere le terre conquistate.

Decisero di partire con una barca ed esplorare le rive del fiume in cerca di Anahì.

In quei giorni di libertà Anahì, non cantò nè pianse, temeva di essere udita dai suoi carcerieri.

Passò di lì un uomo strano: i suoi capelli erano neri e lunghi, i lineamenti marcati e il corpo forte come tutti i charrùas, ma lo sguardo era azzurro.

L’uomo, vedendo Anahì le si avvicinò, ma lei corse lungo il fiume; era spaventata.

I passi di Tabarè –così si chiamava il giovane- erano agili come quelli di un leopardo e in poco tempo le fu accanto, mentre con gesti amichevoli cercava di rassicurarla.

Passò una settimana e Tabarè insegnò ad Anahì alcune canzoni spagnole apprese da sua madre, canzoni di culla, tristi e amorevoli.

Anahì iniziò a cantarle, sempre più spesso e più forte, ormai si sentiva sicura con Tabarè ed entrambi si sentirono attratti l’uno verso l’altra, tanto da provare una sensazione sconosciuta.

Gli spagnoli, che non avevano desistito nella cattura di Anahì, sentendo la loro voce, si inoltrarono nella la boscaglia e con urla spaventose cercarono di fare prigionieri entrambi i giovani.

Tabarè tirò fuori rapidamente il coltello e lo piantò in mezzo al petto di un uomo, mentre Anahì corse a prendere la lancia e la infilò nella fronte di un altro.

Ma il nemico era numeroso e ben armato, presto Anahì e Tabarè furono immobilizzati.

Questa volta la rabbia del nemico non consentì un futuro da prigionieri alla coppia, decisero di ucciderli.

La notte gli spagnoli accesero due roghi: uno per Anahì e un altro per Tabarè.

Dopo qualche giorno dalle ceneri del rogo di Anahì nacque un albero mai visto, frondoso, con fiori rossi e carnosi che nella stagione autunnale si aprono propagando i semi nelle terre fertili del Sudamerica. Il ceibo diventò il simbolo dei paesi del Cono Sud.

Dalle ceneri del rogo di Tabarè nacque l’albero possente del jacarandà. Nella stagione primaverile si veste di fiori azzurri e profumati.

I rami di entrambi gli alberi, con la complicità della brezza, si toccano e le foglie si intersecano come ali di uccelli.

Lievemente volteggia nell’aria un petalo azzurro come una lacrima che si inabissa nelle acque profonde del fiume.

Anna Milazzo febbraio 2015

 

Ceibo, l'albero del corallo ESCAPE='HTML'