Ottavio Profeta - Sagra della spiga

Ottavio Profeta

da "Sicilia Favola Vera" Vol. II pagg. 139-143

I campi di grano che si perdono a vista d'occhio nel territorio di Kore e Demetra grondano della fatica dei mietitori ma sono rallegrati dall'arrivo della trebbiatrice meccanica che quella fatica allevia. Profeta nel suo pellegrinare nell'Isola giunge nel suo ombelico e qui l'osservazione del visitatore si mescola con i ricordi personali della mietitura a cui da bambino assisteva nella core di Aidone, ricordi che si colorano e si arricchiscono degli odori, dei suoni e delle voci di quei tempi. 

"Poi veniva il riposo, all'ombra della impannata, ad attendere il vento per « spagliare »  
... A sera, il vento deponea sull'aia la sua mezzaluna d'oro. Il tridente, lucido, sul mucchio di grano, suggellava la fatica d'un anno. Coi mietitori e gli altri contadini, sedevamo al gran desco della mezzaluna ricco di pane nero. Santamente, il padre nostro serviva i faticatori, benediceva il primo boccone."

LA SAGRA DELLA SPIGA

"L'aria è tutta un polverìo dorato, che si frange a raggera, in un tripudio vivo della luce"
Primo, a venirci incontro è il lago, una sgorbiata di cobalto nel verde, subito cancellato dagli eucalipti in fuga, a inseguirci in doppia fila nel mare di grano che biondeggia dagli argini stradali, su su fino alle case dei paesetti montani, stesi come gattoni a crogiolarsi nel sole.
Ogni cosa, man mano che giungiamo sui dorsali, annega nel giallo riflesso delle spighe, in un colore che il cielo accoglie e sperde, dalle pulite trazzere disseccate fino ai fossi bonificati; dai campi vittoriosi fino all'aia antichissima.

Grano: ondàte di grano, mareggiata di grano dai nomi più sonanti: Roma, Azziziah, Margherito, Marocco. Eccolo che scavalca le colline, precipita nel piano, corre incontro alla marina, scorazza tra i frutteti, s'annoda ai viòttoli, scopre venuzze d'acqua.
Quassù è georgica nuova, si trebbia con la macchina. Sole a piombo, aia pulita; la gente tutta intorno alla trebbiatrice, che tesorizza l'attimo e mangia i covoni. Alta e rossa nei rombanti ingranaggi, la macchina si scrolla, stride, mastica. Lucenti chicchi d'oro, in un velo d'opale, cadono dentro il sacco: dall'ampia bocca antistante, la paglia, ventilata in un nembo, si ammucchia a mezzaluna.

L'aria è tutta un polverio dorato, che si frange a raggera, in un tripudio vivo della luce.

Qui, su questa platea naturale, foggiata dalla mano contadina, si delinea e si afferma, in quest'ora, il mito e l'obbedienza al biblico verbo del pane: lavorato sudando. Lavoro santo, che avvicina al Signore e reca luce nella casa dell'uomo.

La macchina, è vero, con la sua fanfara d'ingranaggi e di cinghie, mette sull'aia atmosfera di forza; ma la religione del lavoro resta, si esalta, anzi, nel contrasto con l'altra, ancora viva: l'aia tradizionale che attinge lena al canto di « lu pisatu», lodando la mula bianca o la morella, scalpitanti con l'unghie sulle spighe:

«A tia, gran mula, arrèggiti a lu ventu, ca ju m'arrèggiu a li me' peni e cantu. Duna, muredda, ca a 'sti canti canti la grana è biunna e lu cocciu è lucenti... ». (1)

(A te, gran mula, reggiti nel vento ch'io mi sostengo alle mie pene e canto. - Forza, morella, che, a 'sti canti canti, la spiga è bionda ed il chicco è lucente).

Nel suo regno sicuro, il contadino siciliano non si lascia turbare dal nuovo: non crede di commettere sacrilegio a maneggiar con amore anche la macchina. Lento ad accoglierla, ha capìto, però, che essa vuole aiutarlo, centuplicare le sue braccia, non già sostituirlo.

Sereno e puntuale, eccolo, infatti, legarsi alla insonne fatica, da gennaio a dicembre; lotta sempre con tutti gli elementi, grandine, siccità, tempesta, ruggine. Per lui, non v'è sciagura capace di dare sgomento. E se anche debba ricominciare la sua giornata, ha nel braccio la stessa forza, lo stesso impegno nel cuore, e questo vince. Così la sua fatica ascende, col salire del sole, al mito d'una battaglia. Di questa, infatti, ha l'odore caratteristico: odore di sole e di farina, che inebria ed incita nell'ora del pericolo o del dovere.

Andiamo, ora, sui monti.

In un trascorrere di favola, per trazzere e calanchi appena segnati dall'unghia degli armenti, ci s'arrampica, si scende, si risale, sempre in mezzo a trincère di frumento, dalle spighe gonfie e pesanti.

Dalla severa masseria del Margherito, via per case coloniche ammodernate e pulite, fino al Santo Nicola, è un paradiso ospitale ed aperto.

Piantato sulla zolla come un dio vegetale, c'è il “bestiamaro” che sta « governando » al beveratoio l'armento di buoi e di bardotti. L'armonia del suo gesto sembra inventata da questo venticello che vorrebbe ristorarci. I passeri, in torneo da un albero al recinto dei vecchi fichidindia, fuggono via nel cielo, quand'egli, aprendo le braccia a salutarci, si prepara ad accoglierci festosamente, nell'assenza del padrone.

C'è, in questa massaria, lo spirito antico della cristiana accettazione, che dà sapore mistico perfino al fuoco del sole.

Aperte le finestre verso oriente, gli Erèi ci balzano incontro, in una luce varia d' azzurro, d'oro e bianco. Ecco là Erbita, il mio vecchissimo Aidone, in cima al suo terrazzo d'arenària, che domina la fuga ampia dei colli, tutti fulvi di grano: la Serra, il Marcato, Malaricotta, il Parco, Poggiorosso, Calvino, Ginestrella...

Aria di casa mia, riverbero di gioia in corsa aerea verso l'orizzonte; infinita scacchiera di bruno, d'ocra e di giallo brillante; feconda mia terra bruciata; ricchezza di Sicilia; ricchezza dell'Italia.

Mi vedo fanciullo, durante i giorni della trebbiatura, nella campagna nostra. Non colsi più tanta poesia, come feci in quel tempo, ...L'aia tradizionale che attinge lena al canto di lu pisatu lodando la mula scalpitante con l'unghie sulle spighe… nel tondo dell'aia, a Barone, che raccoglieva ogni anno la famiglia dei nostri «praticoti contadini» (nostra gente devota) nell'alone di festa religiosa, nell'ansito sacro alla santità del pane, che si respira in questa millenaria tradizione. Falciate le messi, portate le spighe e sparse sull'aia, il contadino vi cacciava dentro “le cavalcature” (una sola, o una coppia di mule), iniziando la trebbia (« lu pisatu ») con l'incitare in tondo le bestie tenute alle redini lunghe, cantilenando. Diceva la canzone, al momento di rivoltare le spighe tutt'intorno dell'aia:

E 'nta l'aria Gesù gghiè, e' n' juta a travagghier…

Oh, ch'è bedda 'sta muredda: vota, vota; all'aria vutè! (2)

(E nell'aia c'è Gesù - che ci aiuta a lavorare. Com'è bella 'sta morella! Volta, volta, all'aia voltate!).

Poi veniva il riposo, all'ombra della impannata, ad attendere il vento per « spagliare » (separare la pula dal frumento).

... A sera, il vento deponea sull'aia la sua mezzaluna d'oro. Il tridente, lucido, sul mucchio di grano, suggellava la fatica d'un anno. Coi mietitori e gli altri contadini, sedevamo al gran desco della mezzaluna ricco di pane nero. Santamente, il padre nostro serviva i faticatori, benediceva il primo boccone.

E l'aia saliva incontro ai monti di viola. Finchè una volpe, nel vallone, gridava d'amore alla notte, e il cielo s'apriva sul nostro sonno, sereno… Ora fa quasi male al cuore dovérsene andare da quest'aria che ci sostiene, leggera leggera.

In faccia all'Etna che invade l'azzurro, ci sono i mietitori, in fila (all'antu). Visti da qui, sembrano intenti a un gioco, a una danza lentissima e scandìta: curvi tra l'oro delle spighe altissime, ritmicamente, ogni tanto, avanzano d'un passo, di mezzo passo; poi, di scatto, saéttano le braccia nell'arco della falciata; e un guizzo argênteo taglia l'aria in bei nastri di cielo.

Sono venuti in otto: giusto quel che ci vuole a fare «un'opera». Ognuno, nel lavoro, confessa la sua età: i vecchi, che mietono fitto, immémori e precisi sul tesoro del grano; i giovani, che svàriano ogni tanto a rifiatare; mentre, più in là, dietro a tutti, l'ancinante (o ligatore) và raccogliendo e legando i manipoli.

Eccoli, i veri arditi della terra. Sono là, come all'assalto, sulle piane o sui monti, in riva al fiume o nell'arsura piena. Attorno ad essi, un gran respiro oscilla, a folate ferme, stagnanti...

E' il forte odore delle sabbie, delle pietre, delle prode assetate : odore di sole; odore di luce che abbaglia, di sangue che fermenta. Nell'enorme calura, il profumo del grano pare odore di forno spalancato, di farina che cuoce.

Forse, è per questo elementare e illusorio errore dei sensi, quando sono esasperati, che i contadini siciliani, e il mietitore in ispecie, si cuociono tanto - nella tremenda fatica – da non sentire più stanchezza alcuna o dolore di corpo.

Certo, è l'anima loro che può questo e li tiene tra i raggi del sole, come dentro una spera consacrata e invisibile.

(1) è di Vincenzo De Simone.
(2) Per la trascrizione di questa quartina, mi sono affidato all'orecchio: fonetica smaliziata, dunque, non scientifica (e può darsi che, per coincidenza naturale, sia la più esatta, anche s'io non possa affermarlo categoricamente). Se il vernacolo aidonese, poi, sia longobardo o lombardo (che è lo stesso) ovverossia gallo-italico, lascio decidere ai glottologi. E poichè la vexata quaestio dei vernacoli parlati dalle cosiddette colonie lombarde è intimamente legata alla incertezza che ancora regna sulla origine, appunto, di esse colonie, credo sia meglio rimandare il lettore che voglia documentarsi in materia a quanto dice Mariano La Via nel suo studio su Le così dette Colonie Lombarde di Sicilia, (in Arch. Stor. Sicil. N.S. Anno XXIV e seg.. 1899. Fasc. 10 e 20, pag. 210 e seg.) e Luigi Vasi, nella sua pregevole monografia Ricordi delle Colonie Lombarde di Sicilia (in Arch. Stor. Sicil. N.S., Anno XXIV, Fasc. 3º e 4º. pag. 608 e seg.).

Per inciso, poi, riporto qui ciò che, per primo. in base alle osservazioni sulle peculiarità fonetiche e morfologiche, e sulle particolarità etimologiche dei dialetti di Nicosia, Sperlinga, San Fratello, Piazza Armerina, Aidone e Novara Sicula - scrive a proposito di Aidone, lo storico Tommaso Fazello, nel suo De rebus Siciliae", edizione 1558 Dec. I, Lib. IX, pag. 210: Aydonum lombardorum oppidum. Norman norum tempore, superatis Saracenis, a Lombardis qui cum Rogerio Comite in Siciliam traiecerunt, in edito monte, cui tota Catanensis planities subest, conditum: quibus adhuc patrii sermonis est usus".

A completare, però, queste brevi e rapide note indicative sul pensiero degli studiosi, a proposito delle origini di Aidone, mi piace ricordare che molti di essi convengono sulle fondate induzioni le quali fanno credere che esso (Aidone) costituisse una delle residenze preferite dai Siculi. (Vedasi: G. Mazzola, Storia di Aidone, ed. Giannotta, Catania 1913, riscontrato col Nissen, l'Heisterbergk, l'Argor, lo Jacques, e specialmente col Pais (in Storia della Sicilia e della Magna Grecia pagina 194 (con lo Schubring (Hist. geogr. XXVIII, 119) con l'Holm (St. di Sicilia, Vol. 1, pagg. 135, 148, 165).