Racconti paesani

Più bella di una favola la realtà della colonia

BAMBINI IN COLONIA AL CASTELLACCIO

Tra i soliti ritagli di giornali è emerso questo articolo, pubblicato su "La Sicilia", che ci documenta una esperienza comune negli anni '50, quella delle colonie estive organizzate dalle parrocchie e dall'Ente Zolfo, considerato che in Aidone c'era una importante miniera, quella del Baccarato. Protagonista in questa cronaca è il "filarista" il giardiniere della Villa Comunale che con la sua numerosa famiglia abitava proprio nei pressi della scuola elementare. 

Figli dI zolfatai felici in Aidone

PIU' BELLA DI UNA FAVOLA LA REALTA' DELLA COLONIA

AIDONE, 31 luglio

I piccoli degli zolfatai arrivarono ad Aidone preceduti dalle loro vigilatrici. Cosi un pomeriggio di metà luglio si vide girare per il paese un gruppo di belle ragazze «forestiere ». Andarono su e giù per il paese, disposto sulle pendici di un monte, e si stancarono di quel salire e scendere. Videro tutto presto, ma furono anche notate presto e con simpatia. Il giorno dopo sui torpedoni giunsero i bambini e le bambine.

La colonia montana dell'ente zolfi è nel nuovo edificio scolastico, costruito dalla Regione e posto in uno dei punti più elevati del paese, in mezzo a vecchie querce e a robinie, sopra un'aiuola di bianche margherite e quattro girasoli dagli alti gambi, un'aiuola civettuola con una piccola vasca e attorno tanti fiori.

Sono stato altre volte alle finestre dell'edificio: lo sguardo spazia su un grande semicerchio che da Enna passa per l'Etna, l'ampia distesa della piana, i campi di: Lentini e quelli di Caltagirone. Veramente bello, il luogo.
Nelle aule dell'edificio, da poco inaugurato, sono state disposte le piccole brande, si sono fatti così i dormitoi. I bambini e le bambine ognio giorno alle diciotto, seduti nei corridoi, possono ascoltare le favole che una voce gentile racconta loro dal microfono.


Io ho ascoltato, mentre i pesciolini della vasca erano attorno alla mano del giardiniere, immersa nell'acqua per togliere delle erbe, la vecchia favola di Cappuccetto Rosso e non mi sembrò vecchia, forse perchè veniva raccontata per dei bambini e io potevo immaginare i loro occhi attenti e gioiosi. « C'era una volta... » raccontava la voce. C'era una volta, pensai io, c'erano tanti bambini che non sapevano da piccoli poveri la gioia di una villeggiatura, lontani dalla loro casa, povera e sonante sempre del triste canto della miseria. Ah! se tutti i bambini poveri potessero, proprio tutti, andare ogni anno alle colonie e vestire un lindo costumino, e godere di tanto sole e mangiare bene, meglio di come mangiano a casa loro.

«...Ma da li a poco - raccontò la ragazza del microfono - da li a poco passò il guardiacaccia, spaccò la pancia del lupo, e la nonna e Cappuccetto Rosso furono salve. »>

«Bravo il guardiacaccia «gridarono in coro i piccoli».

Il giardiniere in mezzo all'aiuola sorrise con me. Nell'acqua della vasca si specchiava la vecchia palma; i girasoli più in là si protendevano vanitosi verso i piccoli fiori; boccheggiavano i pesciolini in mezzo all'acqua. «Mi conoscono i pesciolini disse il giardiniere, ecco perchè poco fa sono stati attorno alle dita della mia mano: credevano che avessi la polvere di biscotto: è la sola che non fa loro male ».
I bambini della colonia erano frattanto usciti sul piazzale e si erano allineati. Per l'aria l'altoparlante diffuse le note dell’inno a Mameli: si ammainava la bandiera e i piccoli mi voltavano le spalle tutti sull'attenti.
«Tra breve andranno a cenare - disse il giardiniere - E con che appetito mangiano. Ne so io qualcosa, coi miei nove figliuoli! I primi anni che la prole incominciò a crescere, pensavo, vedendone arrivare uno nuovo, che questi sarebbe stato diverso. Niente. È come se fossero sempre in villeggiatura. C'è da sentirla, mia moglie! ».

A pochi passi la moglie del giardiniere aveva attorno i più piccini. Poi sopra di me una voce di uomo gridò dall'altoparlante un «rompete le righe» e il piazzale risuonò di voci festose. Erano le voci dei piccoli di tante altre madri figli di gente che lavora nel sottosuolo, a centinaia di metri di profondità, piccoli amorosamente assistiti. 
Lorenzo Pittà

Quadretti siciliani del periodo elettorele

Aidone. piazza Filippo Cordova

Ancora Lorenzo Pittà, con un gustoso quadretto paesano in tempo di elezioni. Le elezioni nel dopo guerra e per tutti gli anni cinquanta erano attese come una grande occasione non solo per esercitare il diritto di voto ma anche per godere, soprattutto durante i comizi, di momenti di puro divertimento gratuito.

Si aspettavano i comizi nel corso dei quali tra i candidati volavano gli stracci, si accusava delle più grandi nefandezze pronti però appena si chiudeva la campagna elettorale e veniva coronato il vincitore a tornare amici come prima, a camminare sottobraccio e a mangiare insieme.

I comizi si svolgevano nel Piano, la piazza dedicata allo statista Filippo Cordova che quasi imbronciato guardava a queste prove di democrazia. Partecipava tutto il popolo anche le donne fresche di diritto di voto. Ci si portava la seggiola da casa perché i comizi andavano ascoltati tutti a prescindere delle simpatie personali. E soprattutto gli ultimi erano imperdibili.

Qui Lorenzo Pittà ci descrive anche il singolo episodio del comizio del presunto principe di Savoia accolto dalle note di Fratelli d’Italia e accompagnato dalle impertinenze di due personaggi molto conosciuti dagli aidonesi: V’cenz’ Parrasgingh’ e Fulipp’ Nghingò, l'apprendista becchino e campanaro e il muto. Sicuramente ancora qualcuno ricorderà i magnifici due anche se non ha memoria di questi comizi che erano veri bagni di folla.

Aidone. piazza Filippo Cordova

Quadretti Siciliani del periodo elettorale

Ora che si sanno e si commentano i risultati delle elezioni, in paese è ritornata la solita monotonia. “Peccato - dicono quelli che avevano tempo da perdere - i comizi son proprio finiti” E veramente ci avevano preso gusto a uscire di casa verso le diciassette. Non già per sentire i discorsi degli oratori, ma per svagarsi. Specie le ragazze da marito, tappate come stanno sempre in casa. Se ne venivano in piazza uomini e donne. Attento a tutti i discorsi era solo il busto del ministro. La gente badava alle macchine fuoriserie, ai bei dischi che si sentivano dagli altoparlanti, agli inni.

Ma non ci sarà mài tanta festa come alle passate elezioni regionali. Allora, quando si seppe che doveva venire il principe per il comizio, nei quartieri, alle fontane, ai lavatoi, le donnette erano in fermento. Si aprivano finestre e balconi e la nuova passava di bocca in bocca. - « Il principino, il principino ». Una cosa da far rizzare i capelli. «Viva il re» - aveva gridato il principe, dall'alto di un balcone, la sera avanti nel paese vicino. E quella «crema» paesana, belle donne e bei mariti, tutte in ghingheri, come alla festa di mezz’agosto aveva agitato le braccia e sventolato i fazzolettini. Ma il commissario non era stato di questo avviso. S'era messo la sciarpa a tracollo. - «Lei - aveva gridato - dopo che la polizia ebbe fischiato come per dire si i salvi chi può, che ora vengono bastonate da orbi - « Lei, principe, faccia a meno di gridare viva il re ». Ma il principe da gran signore gli aveva risposto che lui sapeva la legge. E siccome il commissario aveva ribadito, il principe pareva volesse dargli una sfida. Veramente a un certo punto sarebbe stato bello vederli là in alto, su quel balcone, tic tac, stoccate e parate. Il principe comunque aveva smesso di parlare. Lì per li partirono certi telegrammi da far venire la pelle d'oca. «Torneremo» avevano gridato gli accoliti. E la sera dopo tutto il paese era in piazza a vedere come sarebbe andata a finire tra principe e commissario, che erano due potentati. Ma oramai si erano annusati. E quello fece un gran discorso e l'altro lo ascoltò attento, attento.

Questo andavano dicendo i venditori ambulanti per San Giacomo, il quartiere più antico, vecchio di millenni, ove talvolta si vedono gli spiriti degli Arabi nei vuoti barracani andare in lunga fila a Sant’Antonio, che era la loro moschea. E come, lo dissero a San Giacomo, lo dissero anche negli altri quartieri, pei quali si aggirò un certo prefazio che sapeva gridare e dire parole meglio di un avvocato. E questo prefazio tutto San Pietro, di sopra un tavolinetto che si portava appresso, per farci il podio, roteava tanto di occhi che era bene non contraddirlo.

Così molti quel pomeriggio vennero in piazza da tutti i quartieri, vecchi e storpi, ma specialmente da San Giacomo, nonostante la strada e la salita che c’è. Il principe era bello, alto, un bel paio di occhi, e poi che modo di parlare e di camminare. Almeno lo dissero le ragazze, che erano lì da due ore in prima fila. Aveva fatto il baciamano appena sceso dalla macchina, mentre la musica suonava «Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta». E si vide, appena i musicanti tacquero, e avanti a loro, lo spilungone di Parrasein, apprendista becchino e sagrestano, mettersi e ballonzolare, dentro i suoi stracci, tutto una Pasqua, e poi intonare con gran gesti, nel silenzio dei convenevoli, il tararà, tararà, tararà col pezzo che seguiva quand’era il piccolo sempre scalzo Parrasein, ma di un’altra era. E per tutta la festa avesse più fiato lui che quei furbacchioni pagati per dare fiato alle trombe e chiamare gente.

Kin-Kon il muto invece gli stava a lato, impettito, con tanto di occhi accesi, il pollice destro in bocca, le dita delle due mani stese e aperte, unite per il mignolo e per l’altro il pollice. Morendo il capo pareva volesse dire che anche lui sapeva suonare la sua brava marcia.

E s’incamminarono tutti dall’ingresso del paese, sino alle piazza, tra righe di bandierine e petali gentili di fiori che danzavano sulle teste. Qui il principe pronunziò il suo discorso. I repubblicani in un balcone di fronte con tanto di Edera accesa pareva stessero per scoppiare dalla bile: mai tanta gente ai loro comizi. Però quando volò del traditore, al balcone dell’Edera si perdettero le staffe. Allora si videro il tenente e i carabinieri intervenire e aggirarsi tra la folla, gialli in viso. E con che coraggio, perbacco!

«Santo, santissimo » saltò Biancofiore, mingherlino e occhialuto, sentendo odore di bastonate. Il vecchio rettore dei civili, ex-musicante, disse invece, ammiccando fresco fresco, che meno male che i musicanti erano neutri, diversamente a quell’ora si sarebbero dati gli strumenti in testa, come all'epoca di Ciancio e Cascino deputati nelle elezioni prefasciste.

Quando finì il discorso, il principe andò in Chiesa: la cosa commosse sino alle, lacrime. « Solo quei comunisti non ci entrano mai. I signori sono sempre signori ». Poi il principe partì nella sua bella e potente fuori serie e la gente, gli era dietro contenta e soddisfatta.

«Poveri noi» — diceva un verchietto volta allo macchina che si allontanava — abbiamo perduto il padre ». Certe ragazze da marito si dissero allora e in confidenza che quello dei loro sogni era tale e quale, e si ripeterono un sacco di volte le impressioni. Bello, e certi occhi, e quell’erre... E la macchina? Davvero erano un niente i mosconi di paese. Zulù, sì, zulù da strapazzo.

Poi tutti sciamarono per le vie come alla fine della festa del patrono. Chissà se verrà ancora il principino - andavano dicendo - e molti erano convinti che in paese ci fosse stato Umberto II.

I repubblicani dissero che era stato un piano diabolico, sleale, e che si sarebbero vendicati alle prossime elezioni. Nomi di cartello: Serato e Nazzari per le donne, e perchè no, per i giovanotti Silvana Pampanini e Isa Barzizza. Ma a queste elezioni non si sono visti né gli uni né le altre e invano i miei compaesani li hanno attesi.

Lorenzo Pittà

Corriere di Sicilia 24 giugno 1952

 

Contributi degli Amici di Facebook

Filippo Mantello

"A proposito del movimento da festa che si creava in paese, nelle campagne elettorali, l’articolo del compianto avvocato Lorenzo Pittà mi ha fatto ricordare un aneddoto, raccontatomi da mio  fratello. 
Con la sua comitiva aveva assistito nella piazza, gremita all’inverosimile, al comizio tenuto dal candidato del partito monarchico: il principe palermitano Alliata Lanza di Trabia. Come palco questi aveva utilizzato il balcone dello studio medico del dottore Antonino Scopazzo. Durante, e alla fine, non c’erano stati i soliti applausi, che venivano scatenati, anche in teatro, da claque a ció predisposte. 
Sembrava un mortorio la piazza. Ma gli amici, fingendosi supporters e simpatizzanti, salirono su, a casa del dottore, come per complimentarsi, con l’intento di vedere da vicino il rappresentante dell’aristocrazia isolana. Solo che si erano accalcati sulla soglia del salone e non sapevano che fare. 
All’improvviso mio fratello si sentì spingere da Aurelio Domante con forza e si ritrovò, così,  solo in mezzo alla sala e davanti ad Alliata e al suo Entourage, che li guardavano stupiti. Dopo qualche istante di panico, alzando le braccia si mise a gridare:” Viva il Principe, Viva l’Italia”, grido subito ripreso, e con gli applausi,  dai suoi sghignazzanti compagni. Il principe (mio fratello mi conferma che era  veramente bello ed elegante, come solo si vedeva al cinema), rincuorato, accolse benevolmente quei giovani scavezzacolli e credette fermamente che volessero creare il circolo dei giovani monarchici ad Aidone. Dispose quindi che il segretario, con le tasche piene di rotoli da diecimila lire - lenzuola enormi rispetto alle nostre banconote -  elargisse loro dei soldi per comprare dei palloni di calcio....

Angelo Gallotta

"Erano un vero divertimento per noi ragazzi, che ci infilavamo sotto le panche, legavamo a due o tre gli scialli delle donne, e quando si alzavano per andare via era un vero spasso. Lo spettacolo era bello quando alla fine dei comizi le donne si alzavano per andare via. Pensando che lo scialle si fosse impigliato, si mettevano a tirare, chi da una parte chi dall'altra. Il colpaccio più bello era quando riuscivi a legare tra loro tre o addiritura quattro....

A proposito di comizi, mi ricordo la famosa frase introduttiva di un neoeletto sindaco, nel suo comizio di ringraziamento. Disse :- Paisà! Ora, occhi viv e man e bertul. Ci sun cchiù iurnat ca b'ttun d' sauzzizza."

UN PICCOLO MONDO PAESANO

Aidone -panorama quartiere di San Giacomo

Un piccolo mondo paesano
Sembra che tutto si sia fermato nei secoli e che uomini e cose se ne stiano immoti ad aspettare

Attraversammo la piana nel mattino sereno. L’Etna scioglieva l’ultima treccia di neve, giganteggiava sopra gli agrumeti di Paterno. Da questa altezza distese di campi spogli di alberi ove il verde è un oasi, le mulattiere incominciano ad essere le vie maestre e l’acqua si va a prendere con le brocche. Quando, tutta la piana rimane indietro e Castel di ludica e Raddusa sono alla destra, Aidone appare. Sta di fronte, sulla pendice di un monte che si staglia nel cielo e s’incurva in una schiena di sella, il cui l’arcione resta arditamente sospeso su una valle profonda. Ad Aidone l'abitato, le viuzze e gli orti, a levante, stanno come a un balcone, dal quale si domina la piana, i campi di Caltagirone e Lentini, i monti di Troina, il mare tra Catania e Augusta: il paese è a circa 900 metri sul livello del mare. Alla sommità del monte, donde si vede Enna, i ruderi di un castello, che i saraceni, occupato il luogo, costruirono dopo l'862 «Inaccessibil per ogni dove, sopra una rupe tagliata a picco fuso con la roccia». E lo storico paesano ci dice pure che qui nel 1411 soggiornò Bianca, la bella figlia di Carlo Navarra, andata sposa all’ultimo degli Aragonesi.

E ad Aidone gli Arabi eressero moschee (Sant'Anna e Sant'Antonio); i Normanni chiese come Santa Maria lo Plano, dalla bella torre Adelasia. Nel convento di San Michele ebbe sede un tribunale dell’inquisizione «che giudicava e puniva nelle tenebre della notte»; a un frate Leonardo si deve San Domenico, del cui tempio è rimasta la sola facciata.

I quartieri più antichi hanno viuzze strette, casette fabbricate col gesso che si sostengono a vicenda, stancamente. Ma le costruzioni in pietra arenaria rossiccia sono quelle che danno, all’occhio del forestiero, un volto al paese, il volto di un britanno, giacché la malta friabile presto denuda le facciate. Il paese si adagia pure sulle pendici di mezzogiorno e di ponente. Due piazze, un bel municipio, una passeggiata dal meraviglióso panorama. Dalla passeggiata si può andare a Sant’Anna. Qui un crocifisso di frate Umile da Petralia Sottana ci dice di un soggiorno aidonese dello scultore al quale si devono i più bei Cristi in legno dell'arte isolana.

Il frate scolpiva pervaso da un sacro furore. Chiamato di convento in convento lasciò il segno della sua arte in più paesi della Sicilia. Ora avvenne, narra la leggenda, che quando si trattò di scolpire la testa di questo crocifisso aidònese l'artista non si sentisse. Per più notti pregò ardentemente il Signore affinchè gli guidasse la mano. Ma gli occhi per il piangere gli si erano tanto arrossiti e il corpo per il digiunò tanto indebolito che le forze gli mancarono. Quand'ecco una notte la cella riempirsi di luce, una voce guidarlo nella chiesa, una mano armargli le mani dei ferri e quandi fu l’alba ai frati accorsi si mostrò il miracolo del crocifisso aidonese.

Anche qui le facciate sono tappezzate di manifesti di ogni colore politico: echeggiano ancora la recente battaglia elettorale. Nella piazza più larga non è stato imbrattato solo il monumento di Filippo Cordova, grande e misconosciuto figlio di questa terra. Cospiratore e ministro delle finanze nella rivoluzione siciliana del '48 gli si deve un progetto per la fondazione del Banco di Sicilia, l'istituzione del gran libro del debito pubblico, la battaglia per l’abolizione della tassa sul macinato. Amico del Cavour, poi ministro, padre della statistica ufficiale, lo condussero a morte la camorra e l’affarismo, pei dispiaceri che gli vennero dal marcio che denunciò esservi nella costruzioni dei canali Cavcur e nel corsi forzoso della moneta cartacea (1867-68).

Da tempo il ministro impassibile osserva la stessa tempra di tribuni vestiti di sempre nuovi colori. Certo egli non vede più il landau del barone; nè, se darà un’occhiata in chiesa, sola e distante dalle prime file di panche, vedrà la baronessa; nè là ogni donna portare il vestito che allora si addiceva alla posizioni sociale di ognuno. Ma non basta che in chiesa chi arrivi prima si sieda avanti. Troppo poco in un secolo. Perchè se ti guardi attorno, per il paese e per le campagne, come in molti altri paesi e in molte altre campagne dell’interno sembra che tutto si sia fermato nei secoli e che uomini cose se ne stiano immoti ad aspettare. Giacché i picco mondi paesani aspettano sempre. Da tempo, ad esempio, per le strade, per le fognature, per la luce, per l’acqua, per le case, con la pazienza dei poveri e la fatalità degli arabi. E gli uomini, quelli che lavorano in silenzio, sono fatti solo per solo per lavorare e aspettare. Gli altri sono gli intellettuali da caffè, amano il quieto vivere, fanno e disfanno il mondo, sputacchiano sui credi politici, rimpiangono il passato, scontenti di sè e del presente. Ma nel passato erano anche così.

Aidone è uno dei piccoli mondi paesani anche se ha strade da secoli e luce e acqua da cinquantanni; a parte il fatto di essere per la sua posizione uno dei più incantevoli posti dell'interno.

A sera riprendiamo la via del ritorno. A dieci chilometri dall’abitato ci fermiamo, guardando la strada percorsa. Le case di Aidone sembrano innumeri dadi addossati al monte; le porte e le finestre tanti piccoli «occhi» di dadi. Poi lassù le luci si accendono. Ancora un poco e le lampade pubbliche splendono disposte come in un altare, contro il cielo stellato. LORENZO PITTA’

pubblicato sul "La Sicilia . Quotidiano liberale"- di sabato 7 luglio 1951