Ottavio Profeta. Paese che vai, festa che trovi

 

"Qui, dove la Vita e la Forma si fusero in classica bellezza, nella fantasia dei poeti e del popolo; nella mitologia e nei monumenti; negli aspri e solenni contorni che sostengono l'onda di tre mari; nel vulcano favoloso, nella sue grotte e nelle sue ginestre; nella coscienza dell'umana missione: qui è la Sicilia: triangolo di terra sospesa tra due azzurri; terra antica e dolente; luce ed ansia di luce.  (pag. 177)

Il brano seguente è tratto da "Sicilia favola vera" pagg. 98-104

Raffiotta definisce questa guida "letteratura turistica" e quando Ottavio Profeta parla di Erbita/Aidone non ci può essere definizione più azzeccata, a partire dal nome letterario che continua ad usare per la sua Aidone, Erbita, lo stesso che aveva usato nel suo capolavoro "Odia il prossimo tuo"; è scritto per sucitare negli estranei la voglia di conoscere il paese del mito ma sembra parlare  al cuore e alla memoria dei suoi compaesani quasi che solo loro possano capire fino in fondo quello che lui prova. Per gli altri rischia di essere retorica, e in alcuni momenti ridondanza, ma non per noi, anche se ci separano mezzo secolo, ogni singolo aggettivo  ogni singola virgola servono a ricostruire la nostra memoria comune. E sento veramente il dovere di ringraziarlo. Ecco perchè ho scelto di condividere questi brani nella speranza che tanti tra i miei compaesani vicini e lontani nel tempo e nello spazio li leggano. 

Profeta ritorna in Aidone nel pieno nella canicola estiva e trova il paese, che si è liberato delle fatiche della raccolta del grano, pronto a celebrare la "festa grande"; non ci descrive la festa, la presenza dei santoni che scortano la processione  lo rapisce e lo porta  lontano nel tempo quando bambino fuggiva spaventato perchè si sentiva inseguito da loro, un ricordo che accomuna tutti i bambini aidonesi che hanno trovato sempre un Papaledda pronto a svelargli il mistero dei giganti. "Eccoli infatti, a due a due, tutti vestiti a festa, grandi ed alti fino ai primi piani delle casette, con faccia stupita, zigomi coi pomelli “rintronati” di rosso e lucentissimi, occhioni fermi, sbarrati. Ognuno sorrideva, sotto i grossi baffoni. E tutti avevano i piedi piccoli, minuscoli."

Ottavio Profeta

Ottavio Profeta

Sicilia Favola vera Vol.II

Giornate grandi: PAESE CHE VAI, FESTA CHE TROVI

"Non tradire la tua terra, figlio mio!"

Il progresso non mi ama. L'ho appreso tornando a Herbita (Aidone) "caro luogo natio", che ha messo troppi secoli per salire a mille metri. Però, che luna! M'ha rivelato il coro degli Eréi sulla Piana e poi l'estroso profilo del paese, con quel picco messo in bilico nel vuoto, al Màrcato di Santo Nicola, come una prora audace a tagliare l'azzurro. E subito, nella sbalzata immagine del mio monte, è nato ai colori dell'anima il tono fuso d'una vita comunale e salubre, avvalorata dal cielo come la porta d'un regno perduto.
Ero felice d'andarle incontro.
Assenti e lontani, i miei concittadini si miglioravano nella fantasia (dove non sono risentimenti o castighi), si ingentilivano, diventavano tutti amici, inermi e buoni. Miracolo della campagna senza traccia di case.
Ed ora eccomi qua, di giorno.
A mano a mano che il sole pénetra le cose, diventano più piccole le piazze, e basse le case, le dolci case nostre, semplici nude di pretese. Gli uomini, invece, crescono di statura, s'allontanano dal fondo del ricordo, gravano i piedi sulle pietre antiche, sempre le stesse. Mi riconosceranno, ci riconosceremo più tardi, passato lo sgomento del ritrovarsi vivi tra tanti morti.

E le rondini? Le ha impaurite questo sole d'agosto, furioso come un guardiacaccia agli spari del bracconiere. Appena lo vedono, tutte l'ombre scappano dietro gli alberi, nei fossi, nei cortili, sotto le vesti delle donne. Le rovine di San Domenico, di Castellaccio, di Sant'Anna, mandano all'aria le congreghe dei colombacci, di cui qualcuno, tuttavia, resta a spennarsi e pulirsi, impassibile.

Non c'è che fare: anche quassù è agosto, mese del caldo africano, con le colline color tonaca di frate, le ristoppie arse dalla canicola, le angurie tricolori (bere mangiare lavarsi la faccia) e le lacrime di San Lorenzo, che rigano il cielo notturno di stelle béngala cadenti.

A proposito: il dieci di agosto, lo sapete? ogni zolla rende il carbone che arrostì il martire Levita: è tempo di scavare. Ma quest'anno il Compatrono (dopo quarant'anni) vuol rivedere i santi compaesani, vale a dire abitanti nelle chiese del paese. E poichè il sindaco è d'accordo, saranno sette giorni di gran festa: festa grande.

Mi par d'essere come quello che trovò la scarpa per il suo piede, tanto desidero rivedere i cari zappatori coi calzari di pelo e il vestito di bordiglione sulla camicia bianca. Dunque, appena son desto, salto fuori di casa come un tappo.

C'è in giro la banda cittadina a schicchiriare di contrada in contrada. E c'è, tra gli stessi monti e i valloncelli che lasciai fanciullo, c'è il Gurnalonga, il sacro fiume dei Siculi, che continua a nascere e a scorrere, a nascere e a scorrere, come allora. Ma gli zappatori, i miei zappatori che cercavo, dove sono? Il tempo s'è portato via anche questo brandello di velo impigliato alla nostalgia. E, del resto, anche la madre mia, la mia dolcissima mamma ha dimenticato di destare la casa, alle cinque. Il mondo cammina, e non bada al vecchio fiume coi granchi sulle prode.
Tiriamo avanti, e godiamoci la festa...
Il paesaggio è nel suo fervore, nutrito a getto continuo come in teatro, dove le comparse sembrano una folla e sono sempre le stesse persone che girano dietro il fondale.
Qui, si parte e si torna dall'arco della costa, in un carosello che dura da secoli. Passeggiata aperta su mezza Sicilia, a un tratto si stanca e và sotto i balconi, dove le ragazze quando passa la processione - s'inginocchiano anche per nascondere le gambe a quelli che guardano dalla strada con gli occhi in su, e sono i giovani di primo pelo che per fare all'amore parlano a voce alta

Frutti acerbi di paese; ragazze contegnose. Gli uni e le altre hanno un concetto pratico della vita; eppure, vorrebbero anche «credere a quel tipo di amore romantico, di cui sentono parlare, quando i nonni raccontano. Ma non ci riescono bene. Perciò, portano quest'avanzo di sospiro come un cilizio, pur essendo soddisfattissimi d'essere a questo mondo.

Per ora, il loro mondo è questa cordata della processione che s'arrampica dal basso: colonna di torcieri, il « nunzio » che tesse la spola avanti indietro tra le due file di «coppi », il Bambinello che guarda tutto maravigliato in braccio alla Madonna delle Grazie, e vorrebbe capire come mai, qui, sulla terra, nemmeno i santi sanno essere uguali.

Di colpo, la festa precipita. Ho udito certe chiacchiere tra i famosi santoni giganti (che ogni chiesa ha in dote) e i santarelli modesti delle nicchie. Pare che i giganti siano stanchi di star sene al caldo, chiusi dentro i cassoni, in sagrestia. E il parroco ha dato loro permesso d'uscir fuori, a prender aria, al seguito della Madonna.

Eccoli infatti, a due a due, tutti vestiti a festa, grandi ed alti fino ai primi piani delle casette, con faccia stupita, zigomi coi pomelli “rintronati” di rosso e lucentissimi, occhioni fermi, sbarrati. Ognuno sorrideva, sotto i grossi baffoni. E tutti avevano i piedi piccoli, minuscoli.

(Quand'ero bambino, ne sognai uno che m'inseguiva; ed io a correre, a correre, finchè per salvarmi-saltavo dalla « Valanca del Pantano, e calavo nel fondo adagio adagio, pedalando l'aria azzurra che mi cullava, come una piuma. Mi destai, bianco di paura. E Pappaledda, ch'era un campanaro, mi fece vedere che quelle teste enormi e dipinte erano “ montate ” sopra gabbie di legno, ciascuna rivestita, poi, d'un càmice a colore: verde, azzurro, giallo, viola, rosso cupo o arancione. Mi disse pure che sotto quella veste si celava il portatore, quando il santo gigante usciva al sole per la scorta d'onore al patrono, o nella settimana di passione, o nelle altre occasioni, com'era questa della “festa grande”. Così potei vedere che i due buchi aperti al centro del camice servono al portatore, per vederci: come nelle maschere.

Naturalmente, mi disse anche di non aver paura, perchè i santoni, anche se sono così grandi, non sanno fare il male, non fanno male: tanto che portano sempre un mazzetto di fiori dentro il pugno serrato, e quando s'incontrano si fermano e si scambiano un inchino, per salutarsi, da brava gente campagnola per la quale “il saluto è degli angeli”. Per Pasqua, poi, dopo avere cercato il Signore per tutte le strade, su e giù, quando suona mezzogiorno ch'è l'ora in cui Cristo risorge e la Dolorata si toglie il velo nero, è tale il gàudio, la felicità che li prende tutt'insieme, che si mettono a correre come fanciulli, in un nùgolo di colori e di mantelline svolazzanti, per fare la Giunta nel piano di santa Maria, mentre le campane si sciolgono in gioia, i mortaretti scoppiano, le trombe della banda fanno festa, e tutto il piano è una nuvola azzurra.

Torniamo dov'eravamo, alla processione (mi pare) che stà salendo al Castellaccio saraceno e procede lentissima, ai due lati della strada, coi “nunzi” in sacco bianco, affannati a ordinare le file.

L'ora è matura. I tamburi esasperano i loro rulli solenni e scanditi. Il Corpo musicale và a prendere posto nella piazza, dove le lampade fanno luce di giorno. Ma da Piazza Armerina è venuta un' altra banda, per fare i concerti sul palco: sentiremo Turandot.
Il palco, issato proprio in faccia al Circolo, è tutto una gloria di verdi festoni d'alloro e di lampade esaltate.

«Non piangere Liù...» dice la prima cornetta. Improvvisamente, non posso più sorridere di nulla: il pazzo eroe dei Fiamminghi, Ulenspiegel, mi lascia: mi consegna nel cuore l'uomo senza ombra (Schlemihl di Chamisso). Così mi sento: senza rilievo, senza neppure l'ombra di me stesso.

La mia casa è là, morta, uccisa dal tempo e dagli uomini.
La chiesa di sant'Anna è là, inerte, ma non uccisa dai se coli poi che dietro la sua porta veglia ancora il Cristo di frate Umile.
Fuori, nell'ampia distesa del piano ove i pirotecnici bruciano alla notte fiori e fontane di fuochi fantasiosi, il vecchio tronco della quercia santa piange sangue, come quando io crescevo.
Ora so che il Signore manda soltanto i santi a custodire le memorie.
Riecheggia nell'aria e nel mio cuore la voce di mio padre: Non tradire la tua terra, figlio mio!