O. Profeta "Odia il prossimo tuo" CAP. XIII

CAP. XIII

Favorisca immediatamente in prefettura?!

Il cavaliere Ragni sorrideva.

« O che s'è messo in testa, Lavriano, ch'io sono un burattino? Ah, questi prefetti!”
Ecco un altro presuntuoso che gli voleva far perdere tempo con le chiacchiere: ed egli aveva sul tavolo il progetto del serbatoio per dare l'acqua ai quartieri alti. (Non per nulla, dieci anni avanti aveva fatto posare la tubolatura sotto le basole della piazza!»

« Immediatamente? »
Quanta urgenza! Eppoi, si lamentano che non si ubbidisce: si può ubbidire a un ordine di questi? (Ciò non toglie che i rapporti con la prefettura diventino tesi... Ma che fa, l'onorevole? E' scomparso?)
Ecco, giusto: un telegramma dell'onorevole: «Non trovando inapplicabile articolo 186, Prefettura risolvesi favorevole nota pratica zolfo ».

«Nota pratica zolfo?... Capisco: l'articolo 186 è il famoso salvagente al quale si aggrappa D'Auria; e il prefetto mi chiama per questo: ci siamo! Sennonchè, signor conte Lavriano, io non ho proprio nulla da « favorire» e non tollero inframmettenze... Credo di agire secondo giustizia… »
Qui s'interruppe e restò a guardare di là dalla finestra, che tremava sotto l'impeto improvviso di una raffica.
La terra è nera: il vento vince il volo dei colombi: li sbatte contro le nuvole...

Le granaiole precipitano tra i seminati; e i corvi sembrano scarafaggi nel cielo...

A quest'ora, i conigli tra i «forti» della Serra, ballano... (il parroco li vorrebbe avvelenare tutti con la pietra celeste. Ci dev'essere un ricorso dei cacciatori, mi pare...) Poveri cacciatori, con quest'acqua: annegano... nel quinto comandamento.
Ora non piove più: schiarisce: ma la terra è sempre nera...

Credo di avere, almeno, applicata la legge...

Il telegramma dice « provvedere ». Provvedere, come? Se l'onorevole non avesse voluto far capire che l'ostacolo era l'articolo 186, non avrebbe detto « non trovando inapplicabile; avrebbe telegrafato semplicemente « prefettura applica articolo 186 ». Dunque, bisognava subito «creare » il fatto essenziale, perchè tale articolo diventasse «inapplicabile»: era chiaro.
Immediatamente, nel buio senza confini in cui la sua coscienza si perdeva ogni volta che la « sua » necessità lo afferrava, egli sentì un suo pensiero orribile prenderlo tutto, abbagliare il cervello, pacificare l'anima in una visione quasi solenne di forza superiore, che gli toglieva il fiato e gli fermava il battito dei polsi.
Guardò il calendario: ottobre, trenta.
“Stasera gli scade la cambiale del canonico: non potrà pagare. Comprarla subito e agire...
Suonò il campanello. Come una bestia scatenata e invisibile, la parola agire cominciò a premere le pareti della stanza; e domandava: « che farai »?
Non lo sapeva nemmeno lui, ancora: il destino d'un uomo è sempre in relazione con tutti i sensi degli altri: una cattiva digestione. un bacio, una parola, un gesto, tutto stringe il nodo e pesa sulla bilancia.
Una catena di fatti, un gràfico nel mistero d'un sotterraneo, segnato dal brivido d'una foglia, dalla caduta d'un grave lontano, dal moto d'una stella: ecco la vita, il destino....
Entrò Jena: il sindaco gli ordinò di chiamare Stivala, l'usuraio che abitava a due passi: poi, come faceva sempre, quando preparava un colpo audace, si mise a passeggiare per la stanza, fermandosi ogni tanto davanti a una acquaforte appesa alla parete di levante, il cui titolo era “Saggezza” e che raffigurava Davide, vecchio e inutilmente abbracciato alla bella Abisàg Lunamìta la splendida vergine insaziata.
«Così è la politica: se colui che la stringe non è forte, essa non gli dà figli. Tutti gli avvenimenti umani, del resto, bisogna incatenarli o scatenarli subito con fermezza, per conformarli al proprio volere. L'uomo politico, poi, come l'artista, deve starsene dietro a queste cose e governarle senza parere, mostrando di lasciarle creare in libertà.»
Sorrideva, perchè a questo punto della meditazione, era lieto di riconoscersi un artista dell'azione: ricco di fantasia, presago dei « fatti nuovi » e pronto ai rimedii, cosicchè gli effetti da lui preparati parevano sempre una conseguenza del maturarsi degli eventi.
Ecco Stivala, il ciabattino che, tra una risuolatura e una visita al fratello canònico, riusciva a pizzicare il sessanta per cento ai bisognosi.
- Tuo fratello - gli disse Ragni, - ha una cambiale di D'Auria che, se non sbaglio. scade stasera. Credo di sapere che egli non pagherà... Mi sbaglio?

- Ancora, non si è fatto vedere...- confessò Stivala, che non capiva dove il sindaco mirasse.
- Quanto vuoi, per cederla a Guisina?
A udire il nome del più perfido arnese maneggiato dal sindaco, Stivala fece un moto di sorpresa:
- Don Marco, - disse – non lo merita: è stato sempre pagatore.

- Ma stavolta non paga. Quanto vuoi?
- Trecento...

- Corri a prenderla.
- Per averla, l'ho qui nel portafogli (e trasse dalla tasca interna della giacca una specie di màntice). Però... io non mi persuado… Tanto ci tiene?...

- Chi?
- Guisina, si capisce! Ci tiene: ecco il danaro. Ma, prima, la girata: firma.
E il mercato fu compiuto. Stivala usci piuttosto contento: dopotutto, ci aveva guadagnato.

Il sindaco fece chiamare Guisina, che di li a poco venne ai suoi comandi.

Era costui un perticone giallo, con una testa spaventosamente piccola e schiacciata, sopra un corpo nauseoso.

In due parole, s'intesero:
- Ne rinnovo, nè decurtazione. Se paga, paga. Sennò... Hai capito? Con calma. A cose fatte, subito qui. Arrivederci.
Era il primo passo. Il resto si vedrà.
Ottobre: trenta.
 


Suono di campanacci, nel chiaro tramonto: passano i primi greggi che tornano alla pianura…

...stupore di agnellini, tristezza delle pecore mamme, abbaiar di mastini che incolonnano l'armento; tanfo di chiuso, odor di menta selvaggia: nostalgia di ginestre, fuochi dorati rimasti sulle cime…
I pastori, chiusi nei neri mantelli d'orbace, che hanno fodere di fiamma, stanotte dormiranno a Sant'Anna, sotto la quercia immensa che suda sangue di passione.
- E pure è sempre bello! - dice don Marco, ch'è venuto sull'orto.
La montagna è vibrante dell'eterno desiderio di luce che hanno tutte le cose dirette verso il cielo, e pare sospesa a un filo d'incantesimo: dalle rame degli alberi che stagliano nitidamente nell'alto, si compongono piccole croci a vegliare l'intimo tesoro di fratellanza ch'è in ogni creatura.

E pure è sempre bello: anche se dentro il cuore si ha l'inferno: anche se gli uomini fanno la terra squallida.

Ecco: la famigliola, ora, è raccolta nel giardino: guardano tutti; ascoltano la rapsodia che stempra le pietre in lacrime e profumi. I fanciulli parlano sommessamente, con gli occhi dolci.
Uno dice:

- Ora piove
Alcune gocce d'acqua cominciano a picchiare lentamente sui rami e sulle ultime foglie
vive.

Mentre rientrano in casa, squilla da San Domenico la campana della scuola serale. Don Marco si ferma.
E' il primo segno che chiama i contadini alla iscrizione per la scuola serale: ed egli, il vecchio maestro, è là, nella sua casa squallida, combattuto, agitato, senza aiuto: un povero essere debole e stancato.

Lui, va bene, soffre, perchè tutti gli uomini, per un verso o per l'altro, debbono soffrire: ma i figli, i piccoli?

Sono bambini, li potrebbero amare anche gli uomini cattivi: non hanno altra difesa che il pianto.
Rivide i banchi della scuola: puliti, in fila, col corridoio in mezzo... E da questo corridoio. improvvisamente, gli vennero incontro i « colleghi », in processione: facce bianche, timide. umiliate...
Povera gente! Materia pigra, che dalla Magna charta di Casati ripeteva un'anima ansiosa e disillusa e dal '77 intristiva nella « istruzione obbligatoria» voluta dal sedicente Stato liberale che la relegava perfino nelle stalle!

Per lui, almeno, c'era il suo istinto di educatore-poeta, che trasfigurava la scolaresca in un orto di gigli da coltivare cantando, col cuore sotto i cuori, come un dossale sotto l'ostia.

E i suoi scolari gli volevan bene, perchè, con lui almeno, la scuola era una gioia veramente

« elementare », cioè necessaria.

Tutti, essi, erano i re della sua vita: i piccoli, per i loro occhi curiosi di conoscenza; i grandi, quelli della sera, (qualcuno con la barba brizzolata) perchè, se pure la sua parola creava appena un sussulto nella loro carne stanca di sole e di fatica, era già un dono, da cui, nel tempo, un seme sarebbe riuscito a cercarsi la strada nella terra.
Ma ora?
Solo, era: col peso della sua tristezza; col dubbio sul domani e col pericolo, un pericolo intimamente avvertito, vicinissimo...

Vennero a chiamarlo; e la signora Assunta era turbata.
- C'è Vanni Guisina: ti deve parlare. Che hai da dirgli?
- Io?! Nulla... Cosa può volere?

- Vuoi che venga con te?
- No, no: non c'è bisogno: mi sbrigo.
E così entrò nella « stanza dell'orto », mentre la moglie e le figlie, sedute avanti al balcone, riprendevano il rosario interrotto.
Appena vide la faccia verde di Guisina, che lo guardava con occhi gonfi e schizzati, lo prese una smania repressa che gli mozzò il respiro.

Una ventata fredda s'impennò tra i merletti della tenda che copriva la finestra.
- Il vento - disse Guisina.

Poi si fece silenzio.
I due uomini si fissavano senza salutarsi.
- Già - rispose il vecchio; e si voltò verso la finestra, con una specie di rancore sordo che lo strozzava.

La presenza di quell'uomo gli dava la sensazione d'una lebbra che non si strappa più di dosso.
Gli pareva di avere davanti a sè una fiala di veleno e che non potesse respingerla.

Andò a sedersi dietro la scrivania.

Guisina gli si mise proprio di fronte, sedendo sopra uno sgabellino basso basso, in modo che la sua testa emergeva a fior di tavolo, come un posacarte orribile e vivente.
- Vengo per quell'affare.

- Quale? chiese il vecchio, pieno di ansietà insostenibile.

- Questo - disse ancora Guisina: e posò - sul tavolo la cambiale.
- E che c'entrate, voi? C'è la girata.
Il sangue cominciò a martellare le tempie di don Marco.
- Lasciatemi stare, anche voi!...
- Che vuol dire « lasciatemi stare »? lo ho pagato e voglio il mio danaro. Debbo perderlo?
- Non si tratta di perderlo... Due giorni di respiro...

- Manco un'ora, professore: se non paga, protesto.
Il rombo si affollava nel cervello del vecchio.

 

- Debbo dunque farla morire di fame, la famiglia?

- Io non so niente. O i soldi, o protesto.

Parve al povero vecchio così torturato, di cadere in una profondità ignorata, dove la relazione delle cose si rompeva, fatta a pezzi da un peso d'amarezza che le trascinava tutte nell'oscurità sotterranea del destino. Il ricordo della vita era pieno di lacrime: non c'era più nè presente, nè passato, nè avvenire: c'era soltanto una vampa di sangue, e in essa una parola, una voce svegliata dal sonno:
- Vigliacco! Vigliacco!

Una risata.
Nel cuore, la folgore.
… Una mano di ferro si allungò sopra il tavolo: incontrò prima un rettangolo di carta che trillava fra le dita, poi qualcosa di molle, dei muscoli, una gola...

Strinse forte, più forte, irrigidita come una tenaglia.

Ed ecco: il vecchio vide, come destandosi nell'incubo, qualcosa di mostruoso: una maschera, un teschio, una lingua di serpe che vibrava nella voragine della bocca...
Poi udì un rantolo.

Comandò alla mano di aprirsi.
Balzò in piedi.
L'ombra di Guisina si accasciò con la testa sul petto.

Un tonfo, sul pavimento.

L'abisso, l'abisso, l'abisso!
Corse di là, senza vita, con le mani nei capelli.
Vennero tutti: spruzzarono d'acqua e d’aceto la faccia di Guisina ch'era svenuto. Lo aiutarono a riprendersi: lo accompagnarono fino sulla porta.

E rideva, senza suono: come se già li guardasse di lontano sprofondando nel suo delitto, verso il centro della terra.
Tutta la stanza sembrò cambiarsi in una fantastica zona di penombre, in cui errassero spiriti malvagi, emanazioni spasimose, tragiche rispondenze.
La realtà divenne a poco a poco oscillante: i limiti del “fatto”si allontanarono, si confusero, scomparvero in un piano di esistenza eterna, immutabile come la vita stessa.
La signora Assunta raccolse sotto le ali i figli.

- Niente - diceva il padre, bisognoso di fiducia. - Non è successo niente... Domani s'aggiusta ogni cosa.

All'alba, lo arrestarono.
Due carabinieri erano nel cortile, quando la signora Assunta spalancò la finestra: la salutarono e salirono ad attendere dietro la porta. finchè la poveretta si trascinò ad aprire.

- Il professore? -disse una voce. - Non si spaventi, signora: dovrebbe incomodarsi un momentino in caserma...
Il sole si oscurava.
Entrano: uno ha la faccia impassibile, di pietra; l'altro sembra un fanciullo.
La signora si fa forza e va a destare il marito: il quale, li per lì, non capisce, ma, come sente la parola caserma, raggela tutto e si spore per guardare oltre l'usciolo dimenticato aperto, là dov'è un terribile luccichio di bottoni metallici.
- Non li svegliare... - dice alla moglie che l'aiuta a vestirsi: e le indica i figli che dormono nei lettini di ferro.
La moglie si volge e don Marco vede che il labbro inferiore le trema.
- Le ragazze?

- Non lo sanno.
- Lasciale dormire...
Ma eccole qui le figlie, davanti a lui, col viso bianco bianco: l'abbracciano tanto ch'egli quasi deve trascinarsele di peso per andare nel camerone e poi nella saletta.

- Se mi tengono molto, venite a trovarmi - dice.
Teresa scappa a singhiozzare in un'altra stanza.

pagg, 195-210