Ottavio Profeta: Giro intorno alla zolfara

da "Sicilia Favola Vera" Vol. II pagg. 152-159

Non poteva mancare la grande protagonista della storia Siciliana dell'Ottocento e della prima metà del Novecento: la miniera di zolfo. Erano concentrate tra Enna, Caltanissetta, Agrigento e avevano strappato  alla terra molti contadini, soprattutto i braccianti, per portarli a scavare sottoterra. Il lavoro durissimo dei minatori adulti è niente di fronte a quello dei bambini che Profeta descrive con rispetto e simpatia. Qui Aidone non è neppure citata, ma con le sue miniere di zolfo entrava a pieno titolo in quel territorio eper cui i ricordi di Profeta sono diprima mano.

"L'alito bianco e grave dei calcheroni accesi (dove lo zolfo brucia le sue scorie, per fluire in getti viola di fuoco aggrumato); quel velo mortale, a poco a poco addormenta la vita, incide la natura, la fà nuda, rugosa, rigida e inaridita. Per questo, il contadino mutato in zolfataro, o il picconiere di razza, finito il suo lavoro d'ogni giorno, se ne torna al paese, chilometri e chilometri lontano, tra la campagna buona, viva di alberi e di verde, aperta all'aria sana, col canneto e un filo d'acqua.

Giro intorno alla zolfara

C'è una retorica della zolfara (per fortuna, superata) di cui, con intenti diversi, «fecero uso» artisti, demagoghi, giornalisti e mitingài in cerca di «motivi» o di soggetti teatrali o incendiari.

Ricordo, ai mie verdi anni, la mole agitatissima di Giovanni Grasso, protagonista acclamato ed enorme di quel drammone di Giusti Sinòpoli, intitolato «Zolfara », che eccitò leggi umane ed urgenti. E poi ricordo «Neli, il caruso», di Alessio Di Giovanni; il «Luciano» capomastro arruffapopoli del verghiano “Dal Tuo al Mio”; la colorita avventura di Neri della zolfara, nella «Bella addormentata » di Rosso di San Secondo; e l'indimenticabile Ciàula, di Luigi Pirandello. Dietro a tutti, nel '76, Stava Sonnino, venuto con Franchetti a vedere la Sicilia dei briganti e la fossa dei vivi: la zolfara.

Luoghi comuni o gusto d'esagerazione o moda di “temi sociali” che (da un principio di realtà dolorosa, in quei tempi) plasmavano una maschera.

Qual'era, dunque, e qual'è il volto della zolfara?

A chieder permesso di “vedere”, il più coscienzioso industriale dello zolfo si chiude in un pudore che, quasi esclusivamente, si traduce in rammarico sincero per non aver potuto fare dippiù, come “coltivatore”, nel campo delle bonifiche specialmente sociali, in armonia con quel che và operando in questo campo, la Regione, cui moltissimo ancora resta da fare. Reticenza amorevole, dunque, non più “omertà”.

Giriamo, intanto, lo sguardo sul paesaggio-natura. In genere, esso è superbo: una fuga di colline estenuate in lunghe distese tondeggianti in mezzo ad amplissime vallate, tra rocce acute e case arroccate sugli acròcori o avvinghiate a piè dei colli, a difesa dal vento.

Sono i borghi del centro, i paesoni cui sta legata quasi sempre la zolfara. Nati da un'incursione dorica o punica, da un campo romano o saraceno, stanno là, ritagliati sul cielo con l'incisa violenza di vecchie acqueforti, profondati in un tempo remotissimo, dentro la tonaca della distanza, a guardar la mulattiera che s'inerpica alle coste, per segnare la strada allo zolfataro. Il quale non vive, non fa casa alla miniera: nè lo potrebbe senza danno o pericolo. Perchè la zolfara, sviluppando all'aria libera il trasformarsi del « greggio », fa il deserto d'intorno.

Eccola, infatti, la terra, tutt'in giro alla «pirrera». Tradita la spiga, alberi fratte campagna invecchiarono, morirono, dimenticati dal cielo e dagli uccelli. I contadini. che quella terra avevano zappata arata e rinverdita col loro sudore, dovettero anch'essi prendersi in mano il piccone e scendere laggiù, tra i pozzi e i forni formicolanti e fumanti.

L'alito bianco e grave dei calcheroni accesi (dove lo zolfo brucia le sue scorie, per fluire in getti viola di fuoco aggrumato); quel velo mortale, a poco a poco addormenta la vita, incide la natura, la fà nuda, rugosa, rigida e inaridita. Per questo, il contadino mutato in zolfataro, o il picconiere di razza, finito il suo lavoro d'ogni giorno, se ne torna al paese, chilometri e chilometri lontano, tra la campagna buona, viva di alberi e di verde, aperta all'aria sana, col canneto e un filo d'acqua.

Ogni giorno quest'ansia del ritorno si rinnova e lo rinfranca; si umilia al primo brivido di luce, quando ancora il sole dorme, e lo invita alla zolfara. Egli si leva, scatta già pei mattaioni, và per le
scorciatoie tracciate da piedi veloci. Poi, quand'è sera, quell'ansia lo accende ancora, lo alleggerisce del peso di otto ore trascorse sottoterra, a picchiare e picchiare la dura marna ostinata.

In tre quattr'ore di strada di «montata», torna alla casa, alla sua donna, alla famiglia. Durante la strada, se ancora è novellino, rivede l'inferno cui lo spinge il bisogno: i castelletti neri coi tralicci paralleli; le grandi ruote che regolano il saliscendi delle gabbie nelle gole dei pozzi; forni di fusione, tondi panciuti, col pennacchio giallo; il capomastro, i manovali, i vagonari, l'asino cieco, il mulo orbo, i picconieri, e se stesso con tutti i «pirriaturi», nudi e lucenti, muscoli tesi, bocca chiusa, serrata allo sforzo. E poi, fuori, nel sole. E quasi sempre muto, silenzioso.

Oh come si parla poco tra questi uomini seri, che lavorano duro e stanno al volere di Dio.

Non è vero che bestemmiano sempre; non è vero che sognano sempre coltelli e vendette; non è vero che giurano odio al padrone del lavoro.

- Chistu eni lu nostru travagliu! - dicono, calmi e sorridenti. Questo è il nostro lavoro. E basta: non c'è da aggiungere altro, per il senno siciliano, l'antico buon senso di Sicilia, che non è fatalismo balordo o esasperazione congelata, o annichilimento da bruti: ma è, piuttosto, coscienza d'uomo che sa stare al destino, al dovere d'ogni figlio di uomo sulla terra: che è il lavoro, qualunque esso sia.

Pallido e taciturno, lo zolfataro fa i polmoni al respiro della roccia, che trascina da' secoli le vibrazioni ignote d'altra vita: la vita misteriosa dei cristalli, regolata da leggi inflessibili, misurata su calendari di milioni d'anni.

A queste vibrazioni egli apprende a inarcarsi in silenzio sotto peso d'una fatica agganciata a tutte l'altre che gravano l'umanità: epperò tace.

E se la miniera brucia, egli si avventa con « lance » d'acqua, a spegnerla. Se il fuoco insiste e soverchia, egli lo ingabbia: che la miniera bruci, e bruci la montagna, un anno o un secolo, magari: purchè non faccia vittime. Se la frana lo addenta, le sacrifica un braccio, una gamba, per salvarsi la vita: ma poi, mutilato, ritorna sempre al posto di lavoro. Se giù nel pozzo, in galleria, c'è chi grida all'aiuto, egli corre, si lancia tra i vapori strangolanti, tra le fiamme, nel polverio d'una frana, senza esitare un attimo, e senza pose eroiche.

Questa è la sua realtà: la sua zolfara.

Così, l'unica intesa tra il buio e la luce è per lo zolfataro il piccolo « caruso », l' anima chiusa con lui nella penombra, a lavorare

In questa creatura si rivede, egli, fanciullo: quando anelava di calarsi « laggiù», ed ogni cosa aveva il volto fatiscente del miracolo, anche se in casa c'era poca farina da impastare. Si rivede a sorridere, com'era allora, a dieci anni, mentre preparava i suoi doni nuziali per le giovani spose, bruciando i mozziconi di zolfo raccolti in segreto.

In silenzio, versava quel suo fuoco viola nell' acqua bicchiere... E qui nascevano i fantastici fiori gialli gialli, punteggiati d'occhietti, che guardavano fuori.

Gli sposi, usciti dalla chiesa, passavano felici sotto la pioggia del frumento nuovo.

Il piccolo zolfataro, in coda al corteo degli invitati, nascondeva nel pugno il suo tesoro di bei fiori gialli, nati per un incanto che sempre si rinnova, sposando l'acqua al fuoco.

Poi ne aveva in compenso un po' di càlia e il bacio della sposa, che lo faceva andare a casa trionfante come un piccolo dio vittorioso.

Ottavio Profeta, "Sicilia favola vere" Pezzino Palermo 1954