IL MARE - Putinza d' b'v'raùra

IL MARE   di  Pippo Castiglione

Al mio paese non c’è il mare e nemmeno un fiume che l’attraversa, imparavamo a nuotare nelle gebbie, capienti vasche che raccoglievano l’acqua per i diversi usi: per irrigare, numerose nelle campagne circostanti, e per fare il bucato, dislocate nei quartieri.

Ce n’era una nel Piano di Sant'Anna, più vicina al Macello che alla Chiesa. Un canale d'acqua alimentava l’abbeveratoio, da qui l'acqua defluiva in una grande vasca con le pietre a scivolo lungo tutto il perimetro. Nelle giornate assolate le donne si affaccendavano tutte attorno a fare il bucato e poi stendevano i panni sulle siepi di rovi che delimitavano la zona. Una struttura simile c'era anche al Canalotto, l'uscita dal paese verso Piazza Armerina, andando per la stradella sterrata.

Fare il bagno nei lavatoi non era consentito: le guardie municipali ci davano la multa, le signore ci davano la caccia, ma noi correvamo il rischio oppure organizzavamo spedizioni nelle gebbie di campagna.

Una di queste si trovava in località Casino, poco sotto Morgantina; qui ci recammo una volta con il giovane patataro e la sua bicicletta che aveva due cuffini ai fianchi; partimmo in cinque: due nei cuffini, uno in groppa, uno sulla canna e Alfio il patataro alla guida. Si correva in pendenza per la strada bianca e brecciolosa, per frenare nelle curve l'auriga faceva strisciare, curvandosi sapientemente, ora l'uno ora l'altro cuffino; per arrestarsi, a destinazione, indirizzò il veicolo nella mulattiera laterale che si inerpica a sinistra.

Ci bagnammo nella gebbia piena fino all’orlo, Alfio si esibiva in tuffi e piroette a mezz’aria, altri facevano solo schiuma; a colazione mangiammo uova fritte in una padellina che avevamo portato dal paese. Il fuoco, come si fa il fuoco? Si prendono due sassi alti una ventina di centimetri, si accostano in modo da assestarvi sopra, a cavallo, la padella e sotto si fa fuoco con piccoli sterpi.

All’ombra di un ulivo, nell’ora più calda, ci passammo una sigaretta e ci raccontammo storie della culorvia, una bestia mostruosa metà serpe e metà uccello, inventata dagli adulti per tenerci lontani dalle campagne e mettere al riparo gli alberi da frutta.

Il ritorno verso casa fu meno allegro. Nella salita facevamo a turno: due sulla bicicletta e tre a spingere.

Ma è al mare che s’impara veramente a nuotare, come sapeva fare Alfio, il patataro; lui veniva da Acireale e fin da bambino si era esercitato nelle acque azzurre di Capo Mulini; il mare per noi era un sogno, lontano 68 chilometri, come si leggeva nella pietra miliare posta all’ingresso del paese.

La prima volta che vidi il mare avevo dodici anni, fu a Taormina e ci misi i piedi dentro assieme ai miei compagni; attraversammo con le scarpe in mano quella lingua di terra che congiunge la costa all’Isola Bella. L’acqua ci bagnava le caviglie, era fredda: le ragazze riempivano l’aria dei loro gridolini, i ragazzi facevano i gradassi e offrivano soccorso. Una foto ci avrebbe immortalati mentre facevamo i cavalieri con le scarpe in mano, ma non c’erano macchine fotografiche e nemmeno cineprese.

Prendemmo possesso dell’isola, sotto lo sguardo preoccupato dei nonni pescatori appollaiati sugli scogli con le canne in mano; curiosammo nelle loro ceste:

- Che pesci sono?

- Làppari, scòffani, pizzi ‘i re...nomi mai sentiti prima.

Tutt’attorno le acque erano placide fino all’orizzonte, oltre non si vedeva l’Africa perché c’era foschia; barchette pigre s’attardavano beccheggiando, altre rientravano frettolose.

Quel mare solcarono Ulisse e i suoi compagni di ritorno dalla guerra di Troia, ma sbarcarono più avanti, sulla costa di Aci Trezza, prima di andare incontro all’avventura con il Ciclope. Si vedono ancora i faraglioni nel mare di Aci Trezza, le grandi rocce che Polifemo scagliò all’indirizzo degli uomini che lo avevano accecato.

Polifemo, afflitto dal dolore, chiedeva aiuto e i suoi compagni:

- Chi ti fa male?

- Nessuno

- Se nessuno ti tormenta, dagli dei proviene il male. Prega il padre tuo Poseidone.

Aci Trezza ci racconta anche dei Malavoglia e della Provvidenza, che su quelle acque non trovò fortuna.

Di quella gita scolastica conservo ancora le emozioni dei giorni dell’attesa: era la prima volta che uscivo di casa, la prima volta a Taormina, la perla dello Ionio. La prima volta al mare! Chissà com’era il mare. Si racconta ancora in paese di un aidonese che quando vide per la prima volta il mare, esclamò estasiato:

- Putinzia di briviraura! Potenza di abbeveratoio.

Gli studenti più grandi avevano adattato per l’occasione una canzone che cantammo per tutto il tempo del tragitto:

E’ primavera,

svegliatevi bambine

che Taormina

con tanto amore

ci aspetta già.

Angiolino animava il coro.

Di Taormina il reperto più grosso è il teatro greco, ma io ricordo, piantato nella mente, un albero di nespole del Giappone che cresceva addossato al muro della biglietteria ed aveva i frutti già maturi, belli, grossi, dorati. Non resistemmo alla voglia di assaggiarli, lo spirito predone prese il sopravvento, facemmo incetta, mentre a turno uno di noi faceva il palo.

Sugli spalti del teatro ci disperdemmo come cavallette, su una pala di fico d’India incisi il mio nome e lo ritrovai – che emozione! - alcuni anni dopo. Non mi sfuggirono il paesaggio che si stende verso il mare, laggiù oltre le quinte, azzurro e brulicante, e la veduta verso l’Etna che sulle sue pendici dà ricetto a tanti paesetti. Dell’Etna conoscevo il versante occidentale che si vede dalla Villa del mio paese, oltre la Piana di Catania, non quello orientale che da Taormina si tocca con la mano.

L’Etna, il nostro Mongibello, sempre fumante e incappucciato.

Il primo bagno in mare lo feci a quattordici anni; merito dei gesuiti che d’estate, al tempo del ginnasio, ci portavano alla Plaia di Catania, ospiti della Colonia dei Salesiani; non sapevo nuotare, ma sapevo stare a galla e procedere per qualche tratto sbracciando e sollevando schizzi. In due anni imparai a nuotare e qualche rudimento di stile.

Negli anni successivi, quelli del liceo, continuai a frequentare la Plaia, ospite di Michele, il mio compagno di banco che al Lido Azzurro aveva la cabina tutta la stagione, la n. 25.

Confermi, Michele? Michele non conferma, dice che era la n. 27. Ma lo smemorato è lui, che non ricorda nemmeno che con la sua 600 imparai a guidare l’auto e sostenni l’esame di patente.

A quel tempo Umberto Bindi cantava Il nostro concerto e Don Marino Barreto Arrivederci.

Michele, questo almeno lo ricordi?

Verrò a trovarti uno di questi mesi e ci faremo una lacrimuccia insieme.

18/08/2020.  Pippo Castiglione

 

N.B. la foto della fontana del Canalotto, di Gaetano Masuzzo, non è configurabile con la "gebbia" più profonda e adatta ai tuffi e ai giochi. Appena ne avrà una più adatta la sostituirò o aggiungerò.