O. PROFETA - ODIA IL PROSSIMO TUO - PROLOGO

Aidone in una vecchissima cartolina

Testo

(PROEMIO)

Su una delle più antiche strade di Sicilia e precisamente su quella che, tagliando l'altipiano centrale a dodici miglia da Enna, unisce l'Jonio al mar d'Africa, c'è una montagna solitaria, levata, nell'azzurro dei poggi che le ondeggiano ai piedi, a guardare da oriente la piana di Catania, l'Etna, il mare di Augusta e da ponente il semicerchio degli Erei che svapora nel cielo.

E' una terrazza di tufo e di arenaria, in bilico tra un dossone cuneiforme e una immensa roccia color d'oro, strapiombata nel vuoto come una prora.

Piccole case di gesso ed alberi verdissimi, qui e là, sbiancati di vertigine, le si arrampicano ai fianchi, aiutandosi; e, come giungono alla cima, si fermano sotto i viali della Costa e lasciano passare alcune acacie che si affrettano sull'ultima china a incatenarne i ciglioni. Allora le case slàrgano in una piazza ed aprono le finestre, per vedere tutti i fiumi del territorio snodarsi a ventaglio tra le biancane alluvionali e gettarsi poi nel Simeto lontano, mentre nell'aria indugia il profumo dell'ambra e il colore della sabbia che li aspetta sulla spiaggia.

In questo scenario di bellezza inafferrabile, dove il paese è un'isola nell'Isola, vive una gente prigioniera dell'azzurro e della distanza. I bambini, davanti alle porte spalancate, giocano col cielo che si specchia nei vetri e nelle ceramiche posate sui canterani.

Ma i vecchi hanno la faccia triste.

PROLOGO

(1857)

La mattina del trenta giugno milleottocentocinquantasette, poco dopo l'alba, don Filippo D'Auria se ne stava placidamente seduto al balcone a godersi la prima occhiata di sole, con le mani tra le ginocchia e il naso all'aria: guardava il solito nido che ogni anno i passeri lasciavano appeso alla forcella più alta dell'acacia, nel cortile; e non pensava più nè al codice, nè ai clienti, nè a donna Marantona dei Boscari, l'aspra e caparbia consorte; tanto che non la udi nemmeno quando ella entrò nella stanza e venne a piantarglisi alle spalle, ciabattando.

- Datemi una pizzicata - gli urlò all'orecchio.

Il pover'omo sobbalzò sulla sedia; poi, piegatosi di lato, trasse quietamente la tabacchiera di bergamotto e gliela porse, in silenzio.

- Stasera,- disse ancora la mammona, annusando, - Vittoria Calvello si fidanza col duca di Altamira: e noi non siamo invitati... Avete udito?

- Ho udito: non siamo invitati.

- E non dite altro?

- Che debbo dire? Pròsit...!

- Ma la baronessina è innamorata di vostro figlio Marco, - incalzò la donna. - Lo capite si o no?

- E che ci posso fare, io! Volete che mi ammazzi? Piuttosto, datemi la tabacchiera, se non vi serve più.

Donna Marantona gliela scaraventò sui piedi, la tabacchiera; e uscì, più invelenita di prima.

Quasi senza saperlo, andò a sedersi nella cucina; e qui, come dentro una fossa scavata dal sole che filtrava nei crepacci del tetto incrostato di fuliggine, si mise a digrumare la bile.

Superba com'era, nata e cresciuta nella pretenzione pseudoaristocratica, ogni desiderio le si mutava in ambizione; questa in gara e la gara in rivalità: finchè, nella sconfitta, diventava odio insensato, capace di estendersi in circoli sempre più vasti, che dal paese sconfinavano contro l'umanità.

Ora, da un mese, scoperto il segreto dei due giovani innamorati, e ficcatosi in mente d'imparentarsi coi Calvello, non aveva pensato ad altro che a vincere la tradizionale intransigenza del barone don Rocco, agevolando intanto il divampare della passione nel cuore di Vittoria, largheggiando in consigli con Marco, umiliandosi fino a pregarlo, o esaltandosi al punto da pretendere d'imporgli la sua volontà, senz'altro esito che quello di offenderlo.

Per un momento aveva potuto credere di vincere ed ecco d'improvviso, poichè il barone aveva fiutato il pericolo ed era corso ai ripari, la preda le sfuggiva, e il castello incantato, costruito dalla sua febbre ambiziosa, le rovinava sulla testa.

Non c'era altro da fare che rodersi di rabbia, morire di sdegno.

E si torceva le mani, dure come il suo destino.

La sera, quando fu l'ora di accendere i lumi, chiamò Grazia, la serva.

- C'è nessuno alla porta?

- Ci sono i divotelli per l'olio.

- Daglielo; e prendi pure un mondello di farina, chè domani è sabato.

Fu dato l'olio e il fiore di farina ai poveri, che attendevano.

Poi la campanella della cena squillò per la vastissima casa, che era come uno scoglio sul quadrivio. Di sei maschi che aveva messi al mondo, uno, che si chiamava Salvatore, l'aveva fatto fucilare, nel '48, il capo di Polizia: Manescalco; e due (che manco voleva nominarli!) s'erano rotto il collo in Crimea. Le restavano gli ultimi: Berto, il giullare di tutte le feste, ozioso e furbo come un gatto; Biagio, il laureato “ in utroque ”, ténero come il midollo del sambuco; e finalmente Marco, il saraceno, o, come dicevano tutti, quasi per insultarlo, il poeta.

Ad uno ad uno, come estraniati tra il freddo rispetto per la sua madre e l'apatia del padre, i tre fratelli vennero a sedersi alla tavola massiccia, la quale invadeva la stanza, che era nuda e severa sotto l'ombra di un gran ritratto appeso alla parete dove la luce della lumiera giocava, senza destarlo, con l'oro della cornice.

Donna Marantona, in piedi a capotavola, con le braccia incrociate sul petto e i pugni sotto le ascelle, comandò alla serva di chiamare il padrone; poi sedette anche lei.

La fiaba patriarcale che annulla l'individuo in un malinteso amore del luogo e del passato, comprimeva tutti nella stessa pena: figli e madre si guardavano come da lontananze inesplorate: e ciascuno era solo, incatenato a se stesso, déspota e schiavo, senza voce e senza calore. Nessuno fiatava.

Tornò Grazia, camminando in punta di piedi, e si fermò davanti la porta della cucina, ad attendere il segno consueto col quale la padrona le avrebbe presto ordinato di portare in tavola.

E finalmente si udì lo strascicare di pantofole che annunziava il padre.

Don Filippo veniva a passi lenti, un po' curvo in avanti, e con la testa tremula sul collo smagrito; la sua povera faccia di decrepito pareva soffrire la ridevole sproporzione del naso sul mento lumacato; tuttavia, il sorriso sempre pronto che piegava i lati della bocca, e la bontà rassegnata che illuminava i suoi occhi di lavoratore, mettevano su quella maschera senile una così quieta luce di pazienza, che tutta la figura, così meschina come era, finiva con l'ispirare rispetto e confidenza.

- Voscenza benedica, - dissero i figli, al suo entrare; e si levarono in piedi.

- Benedetti! - rispose il vecchio, facendo cenno di sedere.

E di li a poco Grazia portò la verdura e l'aria si profumò dell'odore dell'olio che la condiva abbondante.

In una pausa, donna Marantona disse, rivolta a Marco:

- lersera, hai suonato troppo, dai Calvello: se hanno bisogno di un servo, chiamino don Pipino Mantella.

Silenzio.

(Marco avrebbe potuto risponderle che questa era l'intesa, per dare modo a Vittoria di nascondere tra gli “spartiti” la sua lettera quotidiana: e lei lo sapeva... Ma preferì tacere: e fu peggio, perchè questo la sferzò maggiormente).

- Stasera. Vittoria si fidanza: te l'ha detto?

- Si, mamma.

- E tu?

Ancora silenzio.

- Non reagisci? Non ti difendi? Non ti muovi? Non hai niente da fare?

- Ho promesso a Vittoria di tacere: è la prova più grande che mi abbia chiesta.

Donna Marantona cominciò a ridere come sparando proiettili a caso, pur di colpire a morte.

Gli altri erano rimasti coi cucchiai a mezz'aria avanti la bocca. D'un tratto, la donna s'irrigidi tutta contro la spalliera della sedia: poi si alzò come una molla, con l'indice teso verso la porta e disse con la voce che tagliava:

- Poichè non senti l'insulto fatto a tua madre, che è donna Marantona dei Boscari!... esci di casa mia!

Marco si alzò, pallido fino alle labbra; si passò il tovagliolo sulla bocca; poi uscì dalla stanza, vacillando.

Tornò il silenzio; e tutti ripresero a mangiare, come si fa dopo aver seppellito un morto.

 

*

 

Fuori, il cielo era così basso che pareva posato sulle case.

Marco scese la scala e uscì sulla strada; quando giunse nella piazza, vide una portantina ingolfarsi nell'atrio di casa Calvello, mentre il torciere soffocava la fiamma d'una torcia nella sabbia del sacco che portava a tracolla; quasi nello stesso tempo, dalla viuzza del Calvario sbucò il baronello Gavira, l'amico dei sogni, cugino di Vittoria.

- Hai visto? - gli disse. - E' la lettiga di Altamira... Povera figlia! Beh! e tu, dove vai?

- Non so, - gli rispose Marco, mentre sentiva il sangue rombargli alle tempie. - Ho bisogno di star solo.

E prima che Gavira potesse trattenerlo, scomparve oltre l'arco della Costa, da cui si scorgevano gli alberi addensati in fitte masse di buio.

Man mano che s'inoltrava per la strada a corona sul monte. Marco sentiva tutta la sua giovinezza appuntarsi, come l'ala del paese in declivio, contro il triangolo immenso dell'Etna, che pareva stampato sul cielo; si rivedeva bambino, quando i fratelli gli sembravano giganti e la madre lo sollevava sulle braccia per baciarlo... Ora capiva che tanta bontà entrava nella nota giornaliera, come il danaro speso per i cani, pei servi e pei balzelli: e che il passato era morto, poichè un'ombra cattiva s'era levata tra quel tempo e il cuore della madre. Bisognava andarsene, uscire da quel cerchio entro cui si estenuava la vita, tra la miseria dei contadini e la lentezza del tempo, sempre vuoto ed eguale…

Già camminava nel boschetto della Silva e le foglie dei querciòli lo toccavano sulla faccia come per riconoscerlo; poi giunse alla chiesa della Provvidenza, dove ogni notte la Mazzona veniva a lamentarsi con Cristo perchè le avevano ucciso un figlio di vent'anni.

Entrò nella mulattiera del Pantano, usci sullo stradale e finalmente fu inghiottito dal buio, dietro lo sprone della Roccia.

Lontano, verso Augusta, un filo di mare schiariva un pezzo di cielo.

 

*

Garibaldi! La camicia rossa!

La libertà!

Poi la mortificazione: i sogni che s'infrangono: Vittoria che muore: i partiti politici, la carta monetata, il caroviveri...

La vita: sempre uguale e diversa, con altri uomini, ma con lo stesso volto di pietra.

Non restano che i capelli bianchi e il desiderio di non finire: farsi la casa, con una donna che abbéveri una grasta e continui il gesto degli avi.

Ed ecco la vecchiaia.