Ettore Capra. La leggenda del tesoro di San Marco

(ROMANTICA)

La leggenda di San Marco

Se ci aspettassimo la solita truvatura -una leggenda legata al ritrovamento di beni preziosi e di tesori- con il sottotitolo “Romantica”,  ETTORE CAPRA ci fa capire che saremmo in errore. Non c’è qui la ricerca del tesoro per sé stesso, il vero tesoro è l’amore perduto la cui ricerca non sempre porta alla felicità ma spesso si ferma all’illusione. Perduto per sempre l’amore, si perde anche ogni altro piacere terreno. In queste leggende popolari, molto comuni e legate a luoghi “magici”, il tesoro sfuma con le prime luci dell’alba, e così può restare sepolto, nascosto nei secoli dei secoli. Gli elementi magici e quelli religiosi si intrecciano in quella terra di mezzo che è la cultura popolare. Capra ingentilisce la leggenda con la storia di un amore infelice che pesca i suoi elementi nelle sue reminiscenze letterarie.

L’ambientazione è in un luogo veramente “magico”, San Marco, una bellissima chiesa medievale, in stile gotico normanno, che mantiene perfettamente intatti i suoi volumi esterni; è tutto ciò che resta del convento e del villaggio che doveva circondarla, considerato che sorge in una delle zone da sempre vocata all’agricoltura, soprattutto uliveti e gelseti per l’allevamento del baco da seta. La chiesetta si eleva solitaria a capo del vallone del Baccarato, a mezza costa tra Aidone e questa contrada. I luoghi descritti in modo mirabile sono riconoscibili da tutti gli aidonesi. Anche la fiera è storicamente accertata si teneva nei pressi della chiesa ogni anno in corrispondenza del plenilunio di maggio, ed era molto frequentata, possiamo immaginarla ricca di mercanzie di ogni genere, di giocolieri, danzatori e tanta gente che vi si aggirava per  acquistare, divertirsi e onorare San Marco e la Maria SS.ma del Baccarato. 

Faccio un sunto, come per l’altra leggenda"Ignis aestuans",  ma mi fa piacere riportare integralmente alcuni dei brani originali. 

"La leggenda di San Marco" . Liberamente tratta dal racconto di Ettore Capra. 1905

“Spesso, nel silenzio della notte, ne lo splendore del plenilunio primaverile, come ne gli orrori della bufera invernale, i muti casolari di campagna si destavano d’un tratto a lo scalpitare e a l’ansare affannoso d’un cavallo, che giungeva e dileguava in un attimo, come il vento!”

I pochi che avevano visto lo strano cavaliere percorrere veloce le contrade ne avevano riportato una “impressione mista di terrore e ammirazione” credendo di vedere nella inquietante creatura ora un demone o addiritura Satana in persona, ora invece San Giorgio il santo guerriero che aveva sconfitto il drago con la sua spada. La sua corsa sembrava non avere mai fine proprio come una creatura non umana, solo raramente concedeva un po’ di riposo a sé stesso e al suo destriero: andava per monti e per valli, per boschi, fiumi e spiagge alla ricerca della donna amata che era sparita, quasi ingoiata dalla terra, senza lasciare traccia.

Una sera di maggio dopo tre giorni e tre notti di cammino incessante era crollato a terra “affranto dalla fatica e dallo sconforto”, il cavallo si concesse il meritato risposo cercando un po’ di erba da brucare e acqua con cui dissetarsi. La luna illumminava un ruscello tanto da sembrare un nastro di argento, il cavaliere si lasciò cadere a terra nella radura e, piuttosto che godere del momento di pace e bellezza della notte, si lasciò travolgere dai ricordi e da quello, più straziante, dell’ultima volta che i suoi occhi e le sue labbra si erano posati sul viso dell’amata. Scoppiò a piangere e quando alzò lo sguardo, accecato dalle lacrime, vide materializzarsi davanti a lui un grande prodigio.

Una ninfea si dischiuse all’improvviso e dalla sua corolla apparve la più bella delle donne che avesse potuto immaginare che, con voce cristallina, si rivolse a lui e gli rivelò di essere stata mandata a lui per aiutarlo a liberare la sua donna: era stata rapita dalle fate che custodiscono il tesoro di San Marco, le quali ne avevano fatto la loro regina. Il prode e fortunato cavaliere, che fosse riuscito a rompere l’incanto, avrebbe riscattato il tesoro sepolto e un tesoro ancora più prezioso, l’anello nuziale della regina. Per ottenere tutto ciò doveva trovarsi presso la chiesa di San Marco in una notte di plenilunio, la notte della fiera che si teneva ogni sette anni. Per liberare la sua amata, ed insieme a lei il tesoro, doveva spezzare le catene che legavano il toro bianco che lo custodiva. Ma si guardasse bene dal toccare la donna fino allo spuntare del sole perché se ne sarebbe pentito amaramente!

La leggenda di San Marco

Prima che il cavaliere avesse avuto il tempo di realizzare ciò che stava accadendo o prepararsi a fare qualche domanda la donna scomparve e tornò il buio della notte rischiarato questa volta da una debole speranza. Si rimise in sella e partì alla volta della chiesetta indicata dalla fata, cercando tra le stelle quella che ve l’avrebbe guidato. Passò un’altro anno e tornò la primavera, mentre correva per monti e per valli senza badare alla fatica e alla bellezza dei luoghi che attraversava, una notte all’improvviso il cavallo puntò le zampe e cercò di tornare indietro. Il cavaliere guardò meravigliato e fu preso dalla vertigine.

“La valanga smisurata della Molera spalancava le sue fauci immani proprio sotto i piedi del cavallo: essa scendeva a picco dapprima con la sezione biancastra e argillosa del fianco della montagna, poi si sprofondava a piccoli ripiani separati da ripidissimi perndii in un abisso cupo di sterpi e di rovi, che da quella incalcolabile altezza apparivano fusi in una unica macchia nera, simile a la fosca superficie di un lago di inchiostro. Ma lo sguardo, mentre si ritraeva inorridito da quel baratro, andava a riposarsi su la pianura fresca di verde e di gorgheggi, che si stendeva giù ai piedi del monte, tutta coperta di noccioleti; e di là si spingeva lontano lontano, sulla vasta pianura di Catania, sino all’Etna torreggiante su l’azzurro del cielo, sino al mare che, come una luminosa striscia d’argento, beveva avidamente la luce lunare...”

Si affacciò sul baratro e fu tentato di porre fine alla sua vita, ma poi il suo sguardo fu attratto dalla stella guida che sembrava più luminosa e ammiccante. Si rimise in sella e cominciò a scendere verso la valle. Superata una grande curva all’improvviso gli apparve inaspettatamente quello che cercava da un anno: la fiera! La valle era addobbata a festa e illuminata da migliaia di luci; al centro, su un piccolo poggio, si stagliava la chiesa di San Marco, bianca nella luce lunare ma completamente illuminata al suo interno, come si indovinava dalle finestre gotiche.

leggende paesane

Il cavaliere si avviò verso la fiera e, appena il suo cavallo si palesò tra la folla con lo scalpitio degli zoccoli, fu accolto da un coro festoso che gridava giubilante “ L’eletto, l’eletto!… Ei viene! Sia lode a Dio e e al glorioso san Marco”. Si ritrovò accompagnato da uno stuolo di giovani donne bellissime, ma i suoi occhi e il suo cuore erano concentrati solo alla ricerca del viso amato. Le giovanette gli offrivano fiori dai lunghi steli e lui li raccolse alla rinfusa pensando di poterli donare all’amata, ma non appena i fiori furono tra le sue braccia li sentì irrigidirsi e i tanti colori si trasformarono in un unico giallo, quello dell’oro. Vedendo la sua meraviglia la fata che guidava il corteo gli spiegò che, per tutta la notte della fiera, tutto ciò che viene toccato da mani umane si trasforma in oro. Lo condussero all’interno della chiesetta illuminata a giorno dove troneggiava la statua d’oro del Patrono, il cavaliere si inginocchiò, ringraziò Dio e San Marco e giurò solennemente di spezzare le catene auree che legavano il toro bianco a custodia del tesoro. Si ritrovò sulla spianata e i portoni della chiesa si chiusero dietro di lui.

Dopo qualche momento di smarrimento cominciò a scendere nalla valletta dove pascolavano armenti e greggi. Tra tutti spiccava il toro bianco della regina che alzò la testa nel sentire l’avvicinarsi dei passi, il cavaliere parti di slancio con la spada sguainata calandola sulla catena che legava il toro per il collo, ma mancò il colpo e rischiò di essere incornato. Il secondo tentativo andò a buon fine, le catene d’oro furono infrante, il toro fuggì e fu come se il mondo stesso fosse stato infranto, gli animali impauriti si dispersero mentre la terra in sussulto si copriva di fiori e gemme preziose. Il cavaliere non li degnò di uno sguardo e, guidato dalla sua stella, scese verso il fiume alla ricerca del palazzo della regina delle fate. Il paesaggio illuminato dalla luna piena mostrava tutte la sua bellezza ma il cavaliere continuava la sua corsa senza accorgersene. E all’improvviso, mentre percorreva un sentiero ombreggiato di ulivi, lei gli apparve ninfa e regina insieme, incedeva tenendo in una mano la palma tempestata di gemme destinata al vincitore e nell’altra le chiavi d’oro del tesoro.

“I loro occhi sitibondi d’amore si cercarono ansiosi, i loro sguardi si incontrarono; e tutto l’ardore accumulato in tanti anni di dolorosa separazione si sprigionò in quell’attimo, in un lampo luminoso come raggio di sole” Sembrava che il mondo si fosse fermato, il silenzio irreale era interrotto dal dolce canto di un usignolo e dal coro angelico che proveniva dalla chiesa di Dan Marco. Il cavaliere si sentì inondato da tutto l’amore e il desiderio lungamente sopito, dimentico delle raccomandazioni della fata cedette alla voglia incontenibile di abbracciare la sua donna, la strinse al seno cercando la sua bocca, ma un urlo disumano uscì dal petto della donna “Tutto è perduto… per sempre!”

La naura tutta partecipò al nuovo lutto, i cori angelici divennero urla e nenie funebri. Tra le sue braccia la regina delle fate, la sua amata, cominciò ad irrigidirsi, le sue membra diventavano fredde e senza vita: si allontanò per guardarla e vide davanti a sé la statua d’oro della donna così a lungo cercata e desiderata. Fu un attimo, scese il buio, la stella che l’aveva guidato sparì in una scia luminosa, ogni cosa fu come ingoiata dalla terra, e tutto intornò piombò nell’oscurità: la luna illuminava intorno a sé la sagoma della chiesetta buia e delle montagne che incombevano minacciose su di lui. Si buttò a terra e pianse tutte le sue lacrime, consapevole che ormai aveva perduto per sempre la sua donna e che neppure l’illusione della sua ricerca di ritrovarla in vita aveva più ragione di essere. Girò lo sguardo e fu colpito ancora una volta dall’ombra incombente della Molera, ricordò il baratro sul quale si era fermato miracolosamente il cavallo. Corse verso l’amico fidato, montò in groppa, corse verso la cima della montagna e con tutta la foga della sua disperazione si lanciò nell’abisso.

“L’oriente si tingeva dei primi bagliori dell’alba, e sulla fascia giallognola che faceva spiccare i fianchi bruni dell’Etna, sorrideva Lucifero: nell’incerta luce del nuovo giorno giocondamente garrivano le allodole”.

(Aidone febbbraio-marzo 1905)