O. Profeta "Odia il prossimo tuo" CAP. II

CAP. II

Per i suoi “affari delicati”, Ragni si faceva servire dal gigantesco capo delle guardie campestri, l'uomo più tristo e devoto della terra, che si chiamava Matalone, ma che il sindaco aveva battezzato Jena, essendone ricompensato col soprannome di “Spalle di legno”.
Perciò, nel pomeriggio dello stesso giorno, giunto al Municipio e assicuratosi che Rusca aveva presentata la querela contro D'Auria, chiamò Jena e gli disse:

- Il Pretore, subito.
Jena si precipitò per la scalea che guidava al pianterreno, ed entrò nella sala della pretura, dove Pietro Sciasciòla, il messo, stava spolverando: e, come il gigante, a guisa di domanda, tese l'indice verso lo stipite della porta su cui leggevasi “Gabinetto del Pretore”, gli rispose che c'era.
Jena picchiò alla porta e, senz'aspettare il permesso, l'apri ed entrò, mettendosi sull'attenti davanti a un bel giovane che lo guardava sorpreso.
- Signor pretore, la desidera il sindaco.

- Il sindaco? E non poteva venir lui?
- Debbo riferire?
- Ma si capisce: riferisca pure.

Matalone scomparve.

- Santo cristiano- si mise a piagnucolare Sciasciola.

- Che c'è?

- Come “che c'è?”. Ma vossignoria lo conosce o non lo conosce il sindaco? Si metta il cappello e ci vada, senta il mio consiglio.
Ma era tardi: sopraggiunse Ragni, e Sciasciola cominciò a prodigarsi in inchini, come davanti a un altar maggiore. Il pretore era rimasto perplesso, a vedere quella figura d'uomo nero, che, pur così muto, incuteva soggezione. Istintivamente avvertiva la voce del destino: irriconoscibile ancora nei suoi veri termini, ma precisata dalla sensazione diffusa di un pericolo vicino. Invitò il sindaco ad entrare, gli offrì una sedia, cercò parole convenienti a scusarsi. Ragni lo ascoltava sorridendo, e mentre si accarezzava la mosca, lo guardava con gli occhi semichiusi, che avevano le pupille come granelli di papavero, bianchicci mobilissimi; finalmente, lo interruppe:
- A vent'anni è ancora permesso sbagliare. Lei... è di prima nomina? Si chiama Morelli, mi pare

-Precisamente, cavaliere: questa è la mia prima tappa. Bene, bene. Io sono stato assente: ma spero che, invece mia, qualcuno le abbia fatto gli onori di casa.
- Senza dubbio: ho trovata la massima cordialità.
- Le piace il paese?
- Oh, si: c'è un'aria di paradiso, buona gente, e pochissimi processi: ...tempo per studiare.
- A proposito: è vero che le hanno presentata una querela contro il maestro D’Aurìa?

Il giovane non rispose e Ragni assunse un'aria scherzosa. Andiamo, via! Non è un segreto. Io sono il sindaco, purtroppo, e debbo occuparmi anche di pubblica sicurezza: dicono che fu un grande schiamazzare, oggi, verso l'una.

- Ma per carità, cavaliere: l'hanno informata male, creda a me: si tratta d'una sciocchezza.
- Eppure, m'hanno parlato di un bambino che s'è dovuto mettere a letto con la febbre... Sarebbe... danno nella salute... (articolo 372, è vero?): lesione personale volontaria...
- Oh, no! Tutt'al più, colposa.

Ragni lo fissò con occhi magnetici: poi disse, quasi paternamente:
- Si regoli come crede. Ma la prego di procedere spedito, perchè, trattandosi di un in segnante, ha da render conto a troppa gente. E... non vorrei tornare a disturbarla.
Si alzò, prese il suo mezzo cilindro e uscì salutando con un inchino troppo perfetto per essere sincero.

Morelli rimase di stucco. La violenza era chiara: si voleva aggravare la responsabilità di D'Aurìa: e quel “non vorrei tornare a disturbarla” era un ammonimento bell'e buono. I bei sogni di giustizia crollavano. Così doveva, dunque, iniziare la sua carriera, il suo ministero di giudice? Questa era la famosa “bilancia”? Sferrò un pugno sul tavolo, e, piantatosi il cappello sulla testa, uscì nella sala delle udienze. E qui Sciasciòla, che naturalmente aveva udito tutto, lo fermò posandogli le palme delle mani sul petto; e domandandogli scuse gli fece capire che ogni gesto impulsivo l'avrebbe potuto rovinare, e che occorreva pazienza e furberia. Se egli, Sciasciola, ha dodici dita nelle mani, contando i pollici forcuti, quello ne ha centomila: e ognuno arriva a Roma! Morelli non l'ascolta più: s'è appoggiato alla finestra che guarda sulla piazza, e di là vede che sotto le gronde in ombra, biancheggiano le gole delle rondini affacciate ai nidi.
Anche la gola di Agata è così bianca! C'era veramente una voluttà dolorosissima, a pensare che una creatura così innocente potesse avere a soffrire per la brutalità degli uomini!

Tutto si faceva misero e volgare, intorno a lui: quella sala era estranea alla sua vita, non la riconosceva più, diventava nemica: i pensieri d'amore che gli si destavano dal cuore, creavano intorno a lui come una nebbia sonora: e in mezzo alla nebbia, lucevano stranamente incomprensibili le parole stampate a lettere d'oro sotto il crocifisso: « La legge è uguale per tutti ».

*

Don Gregorio Pulvirenti, più cacciatore che ufficiale giudiziario, alle cinque precise della domenica seguente, imbracò giberne e cartuccera, staccò il fucile dall'arpione, e usci fuori, seguito da Gemma, che abbaiava festosamente.
Ai piedi gli si stendevano le case della contrada di levante, tutte azzurre e lucenti perchè la notte era piovuto, e ora si asciugavano al sole. La campagna sottostante, tra una parete di nebbia che si sfilacciava agli spartiacque dei poggi e delle colline, pareva una carta geografica per fanciulli, intersecata di colpi di matita blù, e acquarellata con terra d'ombra, seppia e verde veronese.
Sul cielo navigava qualche nuvola orlata d'argento. Insomma era una vera mattinata di domenica, chiara e materna: bastava affacciare il naso fuori di casa, per capire che nell'aria c'era riposo e santità. Infatti, tutti gli uccelli, dal Calvario alla Silva, cantavano.
In mezzo a questa grazia di Dio, il buon uomo si rammaricava che non fosse ancora caccia aperta. Tuttavia, chissà, forse gli sarebbe capitato di sparare un colpo, perchè da quella parte i carabinieri non bazzicavano.
Prese la strada che scende verso il Poggio: nonostante fosse domenica, egli voleva « tentare » la notificazione ufficiale del mandato di comparizione spiccato contro don Marco, per l'affare del bambino spaventato: perchè, siccome erano amici, quel pezzo di carta gli pesava sulla coscienza come una colpa, e non vedeva l'ora di liberarsene. (Si potrebbe star quieti a questo mondo. Invece no: il mandato di comparizione a un galantuomo: e glielo doveva portare lui che gli voleva bene e non si sa che cosa avrebbe pagato per non dargli questo dispiacere).
Nella chiusa di Massaro Ramunno, uscendo da un filare di viti, gli spulezzò tra le gambe la lepre, ed egli, con una trombonata, la stese tra un macero di pampini. Prima di metterla nella carniera, l'osservò, e gli parve di dover concludere che la polvere era male dosata, tant'è che dava sangue. Bisognava, dunque “calare” almeno mezzo punto di piombo. Ricaricò l'arma, con tutto il suo comodo, badando a non sciupare nemmeno un granello di tre effe, polvere miracolosa!, e a livellar bene il piombo nel misurino: anzi, prima di svuotare il boccioletto nella canna del soffjone, lo guardò ancora un momento, carezzandolo con gli occhi, poi, finalmente. convenne che due, tre pallini si potevano ancora togliere. Ecco fatto. Una ribattuta alla stoppa, con la bacchetta del fucile. e via. Al Casalino, una tortora vola da un olivo: “fatti la croce”, le grida, mentre spiana il fucile: e, dopo il colpo, va a prenderla da un folto di roveti. Questa volta, la dose è perfetta: la tortora pare addormentata, con tutte le piume intatte, senza una macchia di sangue.
All'incrocio col viottolo che scende dal “Canale” incontrò la moglie di don Marco, la quale tornava dall'aver colta la “prima mano” di ciliege, laggiù, nel “codicino “, e aveva il crocco sotto l'ascella e un paniere appeso al braccio.

La signora Assunta si maravigliò assai di vedere compare Gregorio così, a mattinata: ed egli per tutta risposta disse che chi dorme non piglia pesci, e chi cerca trova: poi trasse dal carniere la lepre, che aveva ancora gli occhi aperti e un grumo di sangue al fianco, e gliela offri, che non c'era di meglio per fare il ragù. Ma la signora Assunta, a vedere che la bestiola aveva la pancia grossa, fu presa dal ribrezzo e lamentò che si potesse avere il coraggio di uccidere una creatura che doveva figliare! Intanto Gemma, felice di poter finalmente abbaiare senza pericolo, faceva il chiasso fingendo di volere addentare la lepre, che il padrone teneva stretta nel pugno; ma don Gregorio, ad ogni suo salto, alzava ed abbassava il braccio, automaticamente, spiegando alla comare che, a caccia, non si ha il tempo di chiedere lo stato civile alla selvaggina, e peggio per chi si mette sotto la bocca del fucile: quindi, avendo gittata la lepre nel paniere che la donna portava appeso gomito, concluse:
- Per ora, prendetevela: a mezzogiorno. se Dio vuole, passo a mangiare le lasagne.

Ma non si moveva.
- Se aspettate un momento, vi faccio il caffè.
- Si, no... grazie, comare... Sentite...

Non potè continuare, anzi rimase perplesso come se guardasse il nebbione che si vedeva scivolare sul piano della Gurnalonga e stracciarsi ai crinali della Serra.
Con quel faccione da misericordia, la signora Assunta non lo aveva mai veduto.

- Compare! Che è successo? Che c'è?

Il poveromo era davvero sulle spine.
- C'e... che io ho la bocca amara come il veleno: leggete!
E trasse contemporaneamente un gran sospiro di sollievo e il mandato di comparizione. Il quale diceva così:
“Noi, pretore di Erbita, visti gli atti a carico di D'Auria Marco fu Filippo, imputato di lesioni colpose in danno del minore Rusca Giuseppe di Francesco, ordiniamo al detto D'Auria di presentarsi davanti a Noi alle ore dieci del sedici maggio corrente, avvertendolo che, in caso di mancata comparizione, il presente ordine sarà mutato in mandato di accompagnamento”.
La signora Assunta, finito di leggere, tremava. O Signore, e che ha fatto? Perchè l'hanno con lui?
Per quanto ne pensava don Gregorio, questa era un'altra birbonata di Spalle-di-legno, che, con la scusa del Ferrante, li voleva proprio rovinare. Gli occhi della donna s'ingrandirono incredibilmente. e nel cuore essa gridò invocando la giustizia di Dio sul nemico. Poi una nuvola passò davanti al sole e tutta la campagna parve oscurarsi. (Signore, perdonatemi! Ora che sarebbe accaduto? Chi l'avrebbe data la notizia a suo marito? Il mandato di comparizione! Se lo sarebbe preso il diavolo! Almeno il compare restasse finchè don Marco fosse alzato!...)
Oh, santissimo Sacramento! Cosa grave come grave non è poi, intendiamoci! Il pretore è impressionato della visita fattagli ieri in gabinetto da quell'anticristo del Sindaco; ma il suo mestiere lo conosce, oh! E come! Il guaio è questo: che lo conosce! In ogni modo, compare Gregorio resterà: aspetterà che si alzi il professore: e finiamola con queste lacrimucce! Si capisce che, ieri sera, il pretore non poteva venire: bisogna essere logici. Aveva, come si dice, un cuore d'asino e uno di leone. Agata non ha dormito tutta la notte? Ma certo: quindici anni, sono quindici anni! Eppoi, povera figlia, innamorata è: innamorata sul serio.
Eccola qui: sta uscendo di casa ed è vestita di bianco. Alta, con le spalle larghe e rotonde, la faccia aperta, ha gli occhi raggianti e una contrazione dolorosa agli angoli della bocca.

Cammina tenendo la fronte arrovesciata indietro, e, se si ferma un momento, a piedi uniti e dritta sulle gambe, tutta la sua purezza traluce dal candore stesso della stoffa, in cui sembra riverberarsi il tono perlàceo della sua carne: allora, una strana inquietudine prende colui che la guarda: uno sgomento pari a quello che turba il viandante delle pianure siciliane, s'egli sia costretto a fermarsi nel silenzio d'una notte lunare di agosto: perchè non può più intendere se quel pulviscolo bianco che copre la terra, sia veramente la luce della luna, o non piuttosto il dissolversi dell'Isola verso l'infinito.
Appena fuori dell'uscio, Agata, abbagliata dal chiarore mattinale, fece qualche passo indeciso: poi, visto quei due che la guardavano fermi e muti, scivolò come una farfalla in un raggio di sole, e andò a posarsi sul petto di don Gregorio: il quale, a sentirsi tra le braccia quella creatura ancora tépida di sonno, provò tale una tenerezza che fu miracolo se non gli spuntarono le lacrime. Stette un momento a carezzarla sui capelli, poi le disse che la sera «egli», cioè il pretore, sarebbe venuto: e si allontanò col pretesto che nella macchia dei roveti c'era un merlo che da mezz'ora lo stava prendendo in giro.
La sera il pretore venne: tutto allegro, più ciarliero che mai, e, si capisce, bello come un arcangelo.
La signora Assunta vuole fare allegria, perciò sorride e lo incoraggia a parlare: ed egli chiacchiera, chiacchiera, come se avesse paura di tacere.
Don Marco, al primo incontro, non dice nulla: fuma, e sfoglia il vocabolario che ha sotto gli occhi, sul tavolo. Poi domanda, più a se stesso che al giovane, quale può essere l'impressione dell'uomo di legge il quale, dopo avere spiccato un «mandato» contro una « determinata» persona, ci vada poi in casa a far l'amore con la figlia. Nel fare questa domanda, il vecchio ha l'aria di calma e di dolcezza, e i suoi capelli bianchi sono dolci e calmi come lui: ciononostante, il pretore resta perplesso e, a tutta prima, non sa come debba interpretare quella serena gravità.
Si giustifica: dice che il giudice è un uomo come tanti altri e non può sfuggire al destino degli uomini, che è quello di amare: d'altro canto, poichè don Gregorio aveva raccontato del colloquio col sindaco, il signor professore non doveva pensare che il pretore, così giovane com'era, si fosse piegato ad una prepotenza.
Don Marco gli battè amichevolmente una mano sulla spalla e lo tranquillizzò con un sorriso. Poi riprese a cercare il mondo nel vocabolario. Egli ha buona fantasia e gli piace di cucire le parole staccate, anche perchè l'amarezza che affiora sul suo dolore le rende opache e misteriose come le perle.
Fuori, le pietre hanno chiarori: i rami degli alberi luccicano; e i brividi dell'erba, sotto la luna, rivelano le passeggiate delle formiche. E' sereno.
Intanto, seduta ai piedi del lettuccio, alto sui trespoli di fico. Teresa, l'orsetta che sa fare le veci di mamma, racconta ai piccoli le favole; ed ora che i bimbi dormono tutta la stanza svapora nel silenzio e quelli che vegliano, la signora Assunta, don Marco, le due sorelle e il pretore, a poco a poco diventano tante ombre.
Un moscone impigliato a una ragna invisibile tesse la sua disperazione in un ronzio monotono: la casa gira come un naspo: nessuno parla più. Finalmente, la voce di Agata rompe l'incantesimo:
- Mamma, perchè non usciamo?... Vogliamo uscire, un momento?
Presero ciascuna uno scialletto per ripararsi dal « sereno », se lo girarono intorno al collo. Ed uscirono, tutti. Ma quando furono fuori, don Marco restò a guardare la campagna illuminata dalla luna e non volle muoversi più: Teresa entrò in casa delle cugine che stavano lavorando al tombolo, e, affacciatasi alla piccola finestra sullo spiazzo, disse che li avrebbe raggiunti.
Restarono, dunque, soli: i due giovani, avanti, e la signora Assunta, che si lasciava condurre dal sogno stesso della figlia. Andarono a sedersi nella villetta delle rose, dov'era quel ciliegio tutto mangiato dalle formiche, vicino alla cuba.
La signora Assunta levò di tasca il suo “rosario" e si mise a pregare, poichè nella conversazione degli innamorati si sa ch'è meglio non mettere parola.
- Che hai? - domando Morelli alla fanciulla. - Si può sapere che hai, anche tu? Credi forse ch'io non soffra per quello ch'è accaduto?
- Lo so, che soffri: ma che cosa debbo dirti?
Il suo alito odorava di pesca.
Sull'acqua della cuba, cadevano a intervalli i petali delle rose che si spogliavano nel buio.