O. Profeta "Odia il prossimo tuo" CAP VIII

CAP. VIII

Il dieci d'agosto, a mezzogiorno, Letizia (la viziosa che a due anni vuole ancora allattare) è venuta nell'orto, accanto ai margotti di vaniglia a raspare anche lei la terra.
Anche lei, perchè c'è pure la «banda dei briganti» e cioè i fratelli e il cuginetto sordo (che ha la bocca cucita ai lati dalle cicatrici rimastegli quando stava morendo soffocato e gli ruppero la bava in gola, col cucchiaione d'argento); tutti attentissimi, con un grande interesse negli occhi e la pancia a terra: perchè stanno cercando il carbone di San Lorenzo. Intanto è suonato mezzogiorno e la leggenda dice che in tutto il mondo, a quell'ora, il carbone che arrostì il santo affiora sulla terra e chi scava lo deve trovare, sennò è brutto segno.
Un grillo vola a perpendicolo da una ceppaia e cade accanto ai ragazzi: subito è mutilato e prende a camminare come un bruco tutto testa: poi va a morire in un pertugio, sotto il muro che cinge l'aiola. Questa è la miniera: i ragazzi, con l'aiuto di un chiodo, allàrgano, slabbrano, smùrano, finchè trovano una carbonella (una pagliuca, un avanzo di cenere); e allora corrono tutti contenti in casa, a dirlo alla mamma.
Letizia giunge l'ultima perchè è caduta e si è sporcata di terra: però non piange: anzi, guarda la mamma, batte le mani e ride.
Tutta la casa respira; e c'è nell'aria una luce che dà tanta salute!
Questa è la vita: dimenticarci nel travaglio di far crescere i piccoli, che credono a tutto il paradiso; accendere il fuoco; imbandire una tavola bianca; saziare i figli: ecco la festa.
Nel pomeriggio, poi, la festa andarono a godersela dalla «galleria di casa Calvello». Il barone da un pezzo dormiva al camposanto: ma c'era ancora la baronessa, donna Paolina, che voleva bene alla signora Assunta, perchè nel cuore di don Marco aveva preso il posto di Vittoria (povera morta!): e la voleva sempre accanto, mentre lavorava o leggeva o sorseggiava il suo grog d'acqua calda e limone.
C'è una bontà, tra gli uomini, che sorride alle soglie dell'eterno ed è fatta di quell'inafferrabile che sostiene la vita e talvolta è soltanto dolore: e si chiama amicizia.
Questa di donna Paolina Calvello per la signora Assunta era qualcosa di più: come la pietà della pietà, il desiderio di un'anima già fuori della terra, e che voglia ancora sorridere in un gesto di persona viva; come la luce, che trattiene l'ombra nell'aria, quando il nostro corpo è passato un momento in un raggio di sole.
In tutto questo, certo, entrava lo spirito di Vittoria, morta per amore, ma più che mai viva nel cuore materno, secondo l'inclinazione comandatale da Dio.
Entrando nel gran salone, la signora Assunta sentì come sempre una gran pace, mentre la baronessa, bellissima nell'acconciatura severa che metteva in risalto il candore dei capelli e la profondità degli occhi, le sorrideva di lontano.
Andò ad abbracciarla, le sedette accanto e cominciarono a parlare a mezza voce, in dolce confidenza.
Una folla di ragazze, intanto, sfarfalleggiava qui e là per le stanze, lungo corridoio che attraversava la casa dalla « galleria» fino al giardino pensile sulla Costa.
Don Marco, dopo aver salutato schiarendosi la voce, che nell'irrompere dei ricordi gli veniva meno, ogni volta, si spinse coi figli nel vano del balcone.
C'era mezzo paese: una folla sbiadita di galantuomini tra cui ragazze di carta velina che giocavano a far le preziose con avidi sguardi lanciati ai maschi come per caso; e zitellone, e beghine, borghesotti e impiegati che componevano un quadro di vita grama e pretenziosa, truccata d'ambizione, senza verità nè bellezza.
Finsero tutti di non vederli o di non capire che desideravano star lì: qualcuno disse perfino che non c'era posto. Allora don Marco prese a brontolar mentalmente, ma senza convinzione, come se avesse torto; perchè quest'uomo, più si sentiva soffocato dal prossimo, più avrebbe voluto sorridere. Ma poi, quella sera, chissà per quale alchimia dello spirito, tutto il suo cuore di padre sosteneva l'ansia di Agata e pensava solo per lei, sentiva solo per questa creatura veramente siciliana, capace di piegare il demonio fino a scoprirgli un volto di angelo e tuttavia silenziosa, sola, nel suo primo e terribile calvario dell'amore-morte.
In quel punto Bruno svettò per liberarsi dalla mano di Agata e si scaraventò a testa bassa tra le gambe di uno spilungone appiccicato alla ringhiera; subito fu fatto rientrare da Teresa, che fremeva di sdegno e si mordeva le labbra per non piangere. La scena non sfuggì alla padrona di casa. che si alzò con la signora Assunta e si avvicinò premurosamente. Vi faccio aprire la stanzetta del principe? Starete liberi e il balcone sarà tutto per voi. Venite.
La seguirono.

- Hai visto le D'Auria? - diceva intanto una scimmietta alla vicina di posto. - Hanno le stesse vesti di quest'inverno, ritinte con la salcerella.
- No!... La salcerella tinge giallo: è anilina. Quella di Agata è anche macchiata.

- E l'altra è tutta pieghe: bollita male!
- Che ci voleva a stirarla?

- Due fili di carbone...

La stanzetta del principe era sull'ala destra del palazzo, all'angolo sopra la piazza: il principe, un gentiluomo messinese ridottosi a vivere in montagna, la teneva per suo laboratorio. Perchè, bisogna sapere, egli era presidente del Circolo o Casino dei nobili e (tra un'occhiata all'Etna, dal cannocchiale pronto a tutt'ore sul treppiede piantato nel giardino, e lo sviluppo di qualche lastra fotografica) non disdegnava di colmare il vuoto di certi pomeriggi interminabili colorando le palle della carambola o le fiches del macáo o addirittura fabbricando scatole, stecche, tavolini da gioco. Perciò, quando la baronessa aprì la porta del laboratorio, egli era là e, giusto, stava versando un po' di absinthe entro una fiala dissimulata nel manico d'un bastone. La baronessa si fer- mò: ma il principe, niente infastidito, finì l'operazione, avvitò il manico alla canna, e, posatala a un angolo, salutò, inchinandosi. Era un bell'esemplare, come si dice: col pizzetto nero, il naso della razza, gli occhi puntuti: un insieme che accarezzava e prendeva in giro nello stesso tempo.
- Stavo appunto uscendo,- disse; e si fece di lato, per lasciare libero il passo. Poi, baciata la mano alla suocera, le sussurrò:

- La mia “verde sirena” le spiace, è vero?
- Mi addolora, vuoi dire.

- La porto al Club per offrirla...
- A te stesso - completò la donna, severa.

- En amitié - concluse il principe. Ed uscì, fischiettando in sordina.
La baronessa volle personalmente aprire il balcone; poi domandò permesso e tornò nella sala.
Gli ospiti rimasero soli, padroni di tutta la loro libertà. Dapprincipio (confondendo quel- l'isolamento con la solitudine pacifica) ne furono contenti: ma quando uno dei bambini si mise a scampanare coi piedi tra le sbarre della ringhiera e tutti, dalla galleria alla piazza e da ogni loggetta intorno, si voltarono a guardarli, sentirono d'essere isolati, n'ebbero vergogna e rientrarono oltre la soglia.
Don Marco, più per darsi contegno che per altro, volse gli occhi a una lapide che biancheggiava sul muro, a destra del palazzo; e poichè il nome di Garibaldi gli lampeggiò nel petto, i suoi pensieri presero la via del cielo, che già s'adunava in un pulviscolo d'oro sulle case.
Intanto, sulle “piramidi” piantate a guisa di fanali torno a torno alla piazza, e nella ninfa che illuminava il palco della banda cittadina, s'accendevano le fiamme acetilene. Poi dal trasparente di cristallo appeso tra il Casino e il La gazza portone di casa Comunale, brillò il primo titolo dei pezzi “programmati”: “La gazza ladra". I contadini che bivaccavano qua e là (giubbe e calzoni corti, collo nudo, camicia bianca e odor di nepitella) si affollarono attorno alla grancassa del Naschino, e la Pedignognera (per non disturbare il “concerto”) smise di decantare i suoi ceci abbrustoliti. Finchè giunsero i coppi della processione: due file di torcie coi càlici di carta; san Lorenzo, con la gratella e la palma, e la fanfara di Pino Mangiaméle, (che, fatto consigliere, amoreggiava col sindaco).
Il quale, dritto sulla soglia del Casino dei Nobili, guardava anch'egli lassù, ora: verso il balcone all'angolo della piazza.

- Belli, è vero? quei fuochi!

Razzi a baleno, pioggia incandescente, bombe, serpenti, lucciole; poi la “macchinetta” non finiva più: s'è riaccesa tre volte! Belli, belli! Però, io non capisco perchè li “sparano” laggiù, alla Nunziata: se il Santo è in alto, che refrigerio può averne da lontano?
E' don Marco che scherza così, perchè vorrebbe rinfocolare la famiglia, ora che tornano a casa e la festa è finita.
Ma nessuno lo ascolta: tutti seguono un loro pensiero triste.
E i bambini hanno sonno.

pagg. 137-146

 

 

 

 

 

 

VIII

 

 

Il dieci d'agosto, a mezzogiorno, Letizia (la viziosa che a due anni vuole ancora allattare) è venuta nell'orto, accanto ai margotti di vaniglia a raspare anche lei la terra.
Anche lei, perchè c'è pure la «banda dei briganti» e cioè i fratelli e il cuginetto sordo (che ha la bocca cucita ai lati dalle cicatrici rimastegli quando stava morendo soffocato e gli ruppero la bava in gola, col cucchiaione d'argento); tutti attentissimi, con un grande interesse negli occhi e la pancia a terra: perchè stanno cercando il carbone di San Lorenzo. Intanto è suonato mezzogiorno e la leggenda dice che in tutto il mondo, a quell'ora, il carbone che arrostì il santo affiora sulla terra e chi scava lo deve trovare, sennò è brutto segno.
Un grillo vola a perpendicolo da una ceppaia e cade accanto ai ragazzi: subito è mutilato e prende a camminare come un bruco tutto testa: poi va a morire in un pertugio, sotto il muro che cinge l'aiola. Questa è la miniera: i ragazzi, con l'aiuto di un chiodo, allàrgano, slabbrano, smùrano, finchè trovano una carbonella (una pagliuca, un avanzo di cenere); e allora corrono tutti contenti in casa, a dirlo alla mamma.
Letizia giunge l'ultima perchè è caduta e si è sporcata di terra: però non piange: anzi, guarda la mamma, batte le mani e ride.
Tutta la casa respira; e c'è nell'aria una luce che dà tanta salute!
Questa è la vita: dimenticarci nel travaglio di far crescere i piccoli, che credono a tutto il paradiso; accendere il fuoco; imbandire una tavola bianca; saziare i figli: ecco la festa.
Nel pomeriggio, poi, la festa andarono a godersela dalla «galleria di casa Calvello». Il barone da un pezzo dormiva al camposanto: ma c'era ancora la baronessa, donna Paolina, che voleva bene alla signora Assunta, perchè nel cuore di don Marco aveva preso il posto di Vittoria (povera morta!): e la voleva sempre accanto, mentre lavorava o leggeva o sorseggiava il suo grog d'acqua calda e limone.
C'è una bontà, tra gli uomini, che sorride alle soglie dell'eterno ed è fatta di quell'inafferrabile che sostiene la vita e talvolta è soltanto dolore: e si chiama amicizia.
Questa di donna Paolina Calvello per la signora Assunta era qualcosa di più: come la pietà della pietà, il desiderio di un'anima già fuori della terra, e che voglia ancora sorridere in un gesto di persona viva; come la luce, che trattiene l'ombra nell'aria, quando il nostro corpo è passato un momento in un raggio di sole.
In tutto questo, certo, entrava lo spirito di Vittoria, morta per amore, ma più che mai viva nel cuore materno, secondo l'inclinazione comandatale da Dio.
Entrando nel gran salone, la signora Assunta sentì come sempre una gran pace, mentre la baronessa, bellissima nell'acconciatura severa che metteva in risalto il candore dei capelli e la profondità degli occhi, le sorrideva di lontano.
Andò ad abbracciarla, le sedette accanto e cominciarono a parlare a mezza voce, in dolce confidenza.
Una folla di ragazze, intanto, sfarfalleggiava qui e là per le stanze, lungo corridoio che attraversava la casa dalla « galleria» fino al giardino pensile sulla Costa.
Don Marco, dopo aver salutato schiarendosi la voce, che nell'irrompere dei ricordi gli veniva meno, ogni volta, si spinse coi figli nel vano del balcone.
C'era mezzo paese: una folla sbiadita di galantuomini tra cui ragazze di carta velina che giocavano a far le preziose con avidi sguardi lanciati ai maschi come per caso; e zitellone, e beghine, borghesotti e impiegati che componevano un quadro di vita grama e pretenziosa, truccata d'ambizione, senza verità nè bellezza.
Finsero tutti di non vederli o di non capire che desideravano star lì: qualcuno disse perfino che non c'era posto. Allora don Marco prese a brontolar mentalmente, ma senza convinzione, come se avesse torto; perchè quest'uomo, più si sentiva soffocato dal prossimo, più avrebbe voluto sorridere. Ma poi, quella sera, chissà per quale alchimia dello spirito, tutto il suo cuore di padre sosteneva l'ansia di Agata e pensava solo per lei, sentiva solo per questa creatura veramente siciliana, capace di piegare il demonio fino a scoprirgli un volto di angelo e tuttavia silenziosa, sola, nel suo primo e terribile calvario dell'amore-morte.
In quel punto Bruno svettò per liberarsi dalla mano di Agata e si scaraventò a testa bassa tra le gambe di uno spilungone appiccicato alla ringhiera; subito fu fatto rientrare da Teresa, che fremeva di sdegno e si mordeva le labbra per non piangere. La scena non sfuggì alla padrona di casa. che si alzò con la signora Assunta e si avvicinò premurosamente. Vi faccio aprire la stanzetta del principe? Starete liberi e il balcone sarà tutto per voi. Venite.
La seguirono.

- Hai visto le D'Auria? - diceva intanto una scimmietta alla vicina di posto. - Hanno le stesse vesti di quest'inverno, ritinte con la salcerella.
- No!... La salcerella tinge giallo: è anilina. Quella di Agata è anche macchiata.

- E l'altra è tutta pieghe: bollita male!
- Che ci voleva a stirarla?

- Due fili di carbone...

La stanzetta del principe era sull'ala destra del palazzo, all'angolo sopra la piazza: il principe, un gentiluomo messinese ridottosi a vivere in montagna, la teneva per suo laboratorio. Perchè, bisogna sapere, egli era presidente del Circolo o Casino dei nobili e (tra un'occhiata all'Etna, dal cannocchiale pronto a tutt'ore sul treppiede piantato nel giardino, e lo sviluppo di qualche lastra fotografica) non disdegnava di colmare il vuoto di certi pomeriggi interminabili colorando le palle della carambola o le fiches del macáo o addirittura fabbricando scatole, stecche, tavolini da gioco. Perciò, quando la baronessa aprì la porta del laboratorio, egli era là e, giusto, stava versando un po' di absinthe entro una fiala dissimulata nel manico d'un bastone. La baronessa si fer- mò: ma il principe, niente infastidito, finì l'operazione, avvitò il manico alla canna, e, posatala a un angolo, salutò, inchinandosi. Era un bell'esemplare, come si dice: col pizzetto nero, il naso della razza, gli occhi puntuti: un insieme che accarezzava e prendeva in giro nello stesso tempo.
- Stavo appunto uscendo,- disse; e si fece di lato, per lasciare libero il passo. Poi, baciata la mano alla suocera, le sussurrò:

- La mia “verde sirena” le spiace, è vero?
- Mi addolora, vuoi dire.

- La porto al Club per offrirla...
- A te stesso - completò la donna, severa.

- En amitié - concluse il principe. Ed uscì, fischiettando in sordina.
La baronessa volle personalmente aprire il balcone; poi domandò permesso e tornò nella sala.
Gli ospiti rimasero soli, padroni di tutta la loro libertà. Dapprincipio (confondendo quel- l'isolamento con la solitudine pacifica) ne furono contenti: ma quando uno dei bambini si mise a scampanare coi piedi tra le sbarre della ringhiera e tutti, dalla galleria alla piazza e da ogni loggetta intorno, si voltarono a guardarli, sentirono d'essere isolati, n'ebbero vergogna e rientrarono oltre la soglia.
Don Marco, più per darsi contegno che per altro, volse gli occhi a una lapide che biancheggiava sul muro, a destra del palazzo; e poichè il nome di Garibaldi gli lampeggiò nel petto, i suoi pensieri presero la via del cielo, che già s'adunava in un pulviscolo d'oro sulle case.
Intanto, sulle “piramidi” piantate a guisa di fanali torno a torno alla piazza, e nella ninfa che illuminava il palco della banda cittadina, s'accendevano le fiamme acetilene. Poi dal trasparente di cristallo appeso tra il Casino e il La gazza portone di casa Comunale, brillò il primo titolo dei pezzi “programmati”: “La gazza ladra". I contadini che bivaccavano qua e là (giubbe e calzoni corti, collo nudo, camicia bianca e odor di nepitella) si affollarono attorno alla grancassa del Naschino, e la Pedignognera (per non disturbare il “concerto”) smise di decantare i suoi ceci abbrustoliti. Finchè giunsero i coppi della processione: due file di torcie coi càlici di carta; san Lorenzo, con la gratella e la palma, e la fanfara di Pino Mangiaméle, (che, fatto consigliere, amoreggiava col sindaco).
Il quale, dritto sulla soglia del Casino dei Nobili, guardava anch'egli lassù, ora: verso il balcone all'angolo della piazza.

- Belli, è vero? quei fuochi!

Razzi a baleno, pioggia incandescente, bombe, serpenti, lucciole; poi la “macchinetta” non finiva più: s'è riaccesa tre volte! Belli, belli! Però, io non capisco perchè li “sparano”, alla Nunziata: se il Santo è in alto, che refrigerio può averne da lontano?
E' don Marco che scherza così, perchè vorrebbe rinfocolare la famiglia, ora che tornano a casa e la festa è finita.
Ma nessuno lo ascolta: tutti seguono un loro pensiero triste.
E i bambini hanno sonno.

pagg. 137 - 146