O. Profeta "Odia il prossimo tuo" CAP. XIV

CAP. XIV

Novembre è andato in giro sul mondo, a raccogliere bambagia; ed ora porta «tutti i santi» sulle spalle, come un buon venditore di pianete, un po' matto e un po' triste: per non farsi riconoscere viene dalla piana, infagottato di nuvole, e quando s'è arrampicato sul monte, si siede comodamente sopra le case e si mette a fischiare soffiando dalla portella di San Leone.
Così tutte le pietre diventano grigie, le case si velano, i «villani» s'insaccano negli scapolari e dicono che la festa di tutti i santi è festa di nessuno, perchè la pentola in comune non può bollire mai, ed è meglio farne la festa dei morti.
In mezzo alla nebbia comincia allora un tintinnio di fiori metallici, e di lanternine; la sera, i bambini mettono le scarpe sotto il davanzale della finestra e attendono che, nel sonno, i parenti buoni che sono a dormire nel camposanto vengano a portare i regali.

Anche i nostri « briganti », infatti, poichè sanno che il babbo è fuori e che tornerà domani, sono tranquilli e metteranno le loro scarpette sotto la finestra.
Intanto, al caffè dei «cani vaganti » alcuni cavalieri (agricoltori che disprezzano la terra) stanno commentando l'avvenimento: prima sorpresi, poi serî e indifferenti.
Nel silenzio d'una pausa, si ode arrotare uno zolfanello sul rovescio d'un tavolino d'angolo.

- Oh, Tatà: e chi t'aveva visto?
- Dicevate che hanno arrestato qualcuno...- risponde Gavira accendendo l'eterno mezzo toscano.
- Già: D'Auria.
Gavira balza in piedi, lancia lo zolfanello ancora caldo sulla faccia al vicino; poi si precipita fuori e, in quattro salti, è in casa dell'amico.

Ci sono le visite di condoglianze: faccie lunghe, brusio, penombra e inerzia: inutilità.

Anche l'acacia del cortile n'è infastidita.
La signora Assunta ha gli occhi lucenti, ma il capo eretto: si vede che ha un gran bisogno di piangere, e che si padroneggia.
Nella stanza « dell'orto », Trantulidda, don Gregorio, qualche contadino, parlano sommessi: dietro la scrivania, i cognati, muti.
Che le cose giungessero a questo punto, Gavira non l'avrebbe mai creduto: poichè Guisina è il diavolo nelle mani di Ragni, era chiaro che il colpo veniva dal sindaco. In ogni modo, bisognava pensare subito alla difesa: i fratelli che dicono?
I fratelli tacciono. Poi, fatta la visita, salutano e se ne vanno.
Fuori c'è la nebbia, ma almeno si respira. Viene la sera. Il padre non è tornato; la casa è piena di spavento.
Sotto la finestra chiusa, quattro scarpucce spalancano le bocche nel paradiso terrestre dei bambini: ma i morti non verranno a saziarle.
La signora Assunta, nella solitudine in cui cresce la notte, le vede ingigantirsi e colmare la camera: il dolore dell'anima ingiustamente martoriata la spinge fuori della grazia, nel vicolo cieco dell'odio, nel pozzo della magia.
Una livida forza le scioglie i capelli davanti l'immagine della Madonna Nera, le scopre i seni che hanno nutrito cinque figli, la smagrisce come una fiamma.
E la voce, la terribile voce, grida in lei:

- Fuoco e frasca! Mala sorte! Fulmine sordo!
La Madonna, per non vederla (mentre cade come morta sul pavimento) alzò il velo davanti agli occhi. La vegliò tutta la notte: finchè i vetri della casa riarsero nell'alba: allora versò la sua voce limpida nel cuore della sofferente, e le disse:
- Svegliati: sono le cinque: non senti che ogni cosa guarisce e l'Angelo Custode deve andarsene a riposare? I tuoi figli aspettano giocattoli. Alzati, figlia mia...
La donna si destò; sentì nel cuore una dolcezza di pace, come il persistere vivo della sua infanzia lontanissima; volle scendere dal letto e vestirsi: era già vestita! E perchè sul pavimento?
Tanto, dunque, aveva sofferto da non potere nemmeno ricordare!
Lenta, si moveva davanti la finestra la cima dell'acacia; e gli occhi la vedevano: sottile sottile e sola nel grigiore della nebbia, ma tuttavia immensa, infinita come l'universo. La donna si alzò, prese a camminare sulla punta dei piedi con passo che s'incideva nel silenzio.
Tutte le cose parevano origliare. Fuori, il vento cantava.
Fu investita dal freddo, come da una doccia che finì di svegliarla; e allora riconobbe il senso preciso d'ogni cosa pesante sopra la terra: le case, ancora silenziose tra le ghirlande delle nuvole basse; sopra esse, le finestre, lucenti come lastre di ghiaccio; poi il massiccio della casa comunale, il viso opaco del cielo, come un lago capovolto.
Tutto era freddo, e bisognava stringersi nello scialle e correre, mentre ancora le strade erano quasi deserte.
Comprò due galletti di latta: uno verde, coi piedi e i bargigli rossi; l'altro rosso, coi piedi e i bargigli verdi. Però le rotelline della base che li sosteneva, col gancio per legarci il filo, erano uguali.
Se li portò con lo stesso cuore d'una passera che rechi una pagliuzza nel nido; e gli altri poveri, che ora incontrava, le parevano davvero ignudi al suo confronto.
Giunse a casa, che i bambini dormivano ancora: andò in cucina, prese nel grembiale le ultime nespole invernali (dure e barbute) le suddivise in quattro fazzolettini di battista e colmò con esse le scarpette, che attendevano con le stringhe allentate per farsi la bocca grande. Finalmente, sopra i mucchietti così composti posò i due galletti.
E la luce, messaggiera di fantasia, si avanzò verso di essi.

                                                          *

Davanti al portone della prefettura, Jena, la guardia campestre, aspettava che il sindaco scendesse, come gli aveva mandato a dire; e si teneva pronto fra i due cavalli che impazientivano battendo l'unghie contro il lastricato.
Intanto lassù, nel gabinetto del capo della provincia, quattro uomini «ragionavano»: da una parte Lavriano e Ricobelli; dall'altra il cavaliere Ragni e l'onorevole.
Il quale si può dire non avesse altro nome, poichè nel volto, nel gesto, in tutto il suo comportamento, aveva un non so che d'inafferrabile, in cui la sua figura, come per salvarsi da ogni pericolo d'identificazione, sbiadiva, per mimetismo.
Sola, dietro la sua voce e i sillogismi di cui si piaceva infiorare la dialettica sofista, insisteva la sua risata di compatimento, come un arco sotto il peso del suo costante tono dispregiativo.
Per cominciare, Lavriano aveva chiesto al sindaco se conoscesse bene la «pratica» D'Auria. Si? E allora doveva deplorare che, in modo veramente riprovevole, egli si fosse giocato d'un suo ordine preciso, ch'era quello di reintegrare il maestro.
Con un sorriso amabile, Ragni lo rassicurò: egli stesso, in persona, aveva esaminato il caso: e, francamente, non trovava di che rimproverarsi: la legge è la legge...
- Quattro più quattro... - aggiunse l’onorevole. - Matematica!
- Questo è il sistema metrico decimale, - scattò Lavriano. - E il mio convincimento non si limita al metro e alla bilancia!
- Si vedono gli stracci, in quel ricorso - intervenne Ricobelli.
- Io prego il signor provveditore di ricordarsi che il cuore, qui, non c'entra - sogghignò l'onorevole.
- Eh, già: questa è carta, dice lei; non è vero?
- Lei, onorevole - disse quasi compitando Lavriano - vede le cose da uomo di parte: chi è sconfitto, anche se vecchio, sia percosso, non è vero? E' la tattica... dei forti!
Il deputato scuoteva la testa, sorridendo, come colui che, avendo inteso il tono della vita, ha imparato a schernirla.
- Potrei rispondere, - disse, - che quando un uomo ha un pensiero che lo domina, lo vede dappertutto... - E lo fissò, con occhi ironici.
Lavriano radunò sotto l'arco delle sopracciglia la forza del proposito nobilissimo che gli si stampava in tutta la persona e si alzò:
- Io non ho che un solo pensiero, onorevole: render la pace alla mia provincia. Se può sembrarle impolitico il mio linguaggio, badi alla piena anche lei!
- La sua fierezza è degna dei Lavriano, - rispose con calma il deputato. - Ma mi permetterei di osservare... che i nobili fardelli debbono talvolta cedere il passo al buon senso, alle forme prevalenti, alla pratica, insomma: rendo l'idea?
Lavriano aveva una gran voglia di afferrare quest'uomo «pratico» e scaraventarlo dalla finestra con tutte le sue miserabili teorie. Ma fu distratto dallo sguardo fosforescente di Ragni, che lo fissava, senza dire una parola, godendosi il dibattito.
Successe una pausa di silenzio, durante la quale, come per un improvviso senso di «premonizione» colse attraverso l'anima il pensiero beffardo del sindaco.
- Chi rispetta il diritto, è sempre debole, vorrebbe dirmi lei, non è vero? Chi se ne serve, invece, per la sua vita, ha sempre più fortuna; siamo d'accordo: ma per questo sta in basso!
Aveva perfettamente indovinato: Ragni si ribellò alla sferzata.
- Il signor prefetto ha, insomma, intenzione di mortificarmi?
Lavriano battè un pugno sul tavolo:
- Ho detto che mi è parso ed è inumano opporsi a un'ordinanza prefettizia che stemprava il rigore dell'articolo 186, in una quistione che può costare il pane a un innocente!

- Innocente? Ma perdoni, signor conte: l'innocenza si prova!

A questo punto, Ricobelli perdette ogni ritegno.
- La verità vive di fede, anche per quelli cui è impedito di vederla! — gridò. — La nostra fede (e accennava a Lavriano) è una fede sdegnosa ma incrollabile. Per questo, signor sindaco, ebbe il coraggio di navigare nel buio, a lumi spenti, da Quarto a Marsala, ricorda?... Siamo ancora come allora, sul Piemonte e sul Lombardo: con lo stesso cuore che amava la Sicilia, ed oggi più di allora: ma la Sicilia non è nè lei nè l'onorevole! Se Dio vuole, è sempre la sua storia, la terra e il suo cielo, se lo ricordi bene. E si ricordi, soprattutto, che c'è la legge di Dio.
Aveva già fatti alcuni passi verso l'uscio, per andarsene, quando nella pausa di stupore che seguiva il suo sfogo, la voce del sindaco lo richiamò:
- Prego, commendatore. Una parola: l'ultima. L'avrei già detta, se me ne fosse stata concessa l'occasione. Ma qui mi si tratta come un accoltellatore, senza darmi nemmeno il tempo di smontare di colpo un edificio che ha per base il malinteso...
Si fece un gran silenzio. Lo stesso onorevole stupiva.
- Voglio dire - cominciò Ragni – che in me c'è stata e c'è la piena volontà non solo d'ubbidire, ma di essere giusto fino a quei tali criteri di equità che stemprano l'articolo 186... Ma l'articolo 186... non è applicabile.
- Perchè? - fecero ad una voce Lavriano e Ricobelli.
Il sindaco assaporò lentamente la risposta: poi disse, con la più precisa intonazione di rammarico:
- Ieri mattina, D'Auria l'hanno arrestato.

E mentre tutti, come a un colpo di scena, trasecolavano, portò la poltroncina vicino allo scrittoio del prefetto e prese a raccontare:

- Ecco ciò che è avvenuto...

 

Nello scendere le scale, l'onorevole gli disse:

- Bravo sindaco: siete un demonio.
E, per salutarlo, gli strinse calorosamente la mano.
Ragni lo vide andarsene ondulando sulla pancetta, scolorire a distanza nell'atrio del tribunale, ch'era di fronte; poi, d'un balzo, saltò in sella e frustando leggermente il cavallo, si allontanò di trotto, seguito da Iena, che lo scortava.
Prese la via dei Cappuccini, per uscire dalla città. Verso le grotte, mise il cavallo al passo.
Il sole pareva una macchia sul cielo, attraverso le nuvole che presentivano il tramonto; l'arco dell'agile ponte sul Salso si disegnava nitido tra le due sponde del fiume, che luccicava nella valletta.
Vi giunse presto e, prima di camminarci sopra, fu al preso da un pànico improvviso, come se , al peso del suo corpo e della bestia che lo portava, il ponte gli dovesse rovinare sotto.
Trovava che il cavallo era lento; poi, quando l'ebbe sferzato, gli parve che tutta la terra si rammaricasse con lui, che voleva lasciarla per vedere altre cose.
Cercava, guardandosi intorno, ma non sapeva precisamente che cosa: sopprimere la strada...; giungere senza viaggio... Bisogno di dilatarsi e finire; bisogno di luce e buio; di silenzio e di parole: perchè tanta inquietudi- ne? Questa insoddisfazione, questo refluire di movimenti contrari, nel cuore e nel sangue, che volevano dire?
Cercava la spiegazione nel mondo visibile: ma il suo male era nella coscienza.
Ecco: tutte quelle montagne che si ammantavano d'ombra, orlate di luce, il cerchio dell'orizzonte, il cielo stesso, tutto gli dava la sensazione sconfinata dell'orgoglio, come fosse opera sua: e, subito dopo, l'aspetto delle piccole cose, un paracarro, la spalletta d'un ponte, la scarpata di un terrapieno in rovina, un tronco d'albero stecchito, un pagliaro, una pietra spostata in mezzo alla strada, lo immiserivano, lo mortificavano.
A poco a poco la grandiosità del panorama cominciò a pesargli sull'anima come una condanna: gli parve d'essere piantato là, da secoli, a pestare sempre lo stesso spazio di terra; e che la strada gli rotasse sotto i piedi, come un tappeto magico che desse l'illusione di avanzare lasciandolo fatalmente allo stesso punto.
Lo spazio lo spaventò come la presenza di una grandiosità invincibile: ecco, ecco... egli non camminava più: indietreggiava con tutto l'orizzonte...; e l'orizzonte gli si chiudeva alle spalle per imprigionarlo, per sotterrarlo vivo... Era scesa la notte.
Non c'era altra luce, sulla strada, che quella del ricordo: ecco la voce dell'onorevole, nel silenzio :
- Bravo, sindaco: siete un demonio.
E quella di Ricobelli:
- C'è la legge di Dio...
Demonio.
Dio.
Le due parole folgoravano nella notte: unità che pacifica; separazione che acceca: dov'è la verità?
Il mondo è pieno di nemici: chi è colui che vive? Quello che ama?, o quello che sa odiare? L'odio è pure una grande fatica!
Ma anche l'amore è una quiete affaticante!
Dio non sarebbe dunque « restrizione» ?

Ripòsati, ripòsati... Sempre, il male è esistito: chi sei, tu che ti affatichi a vederci nel buio? Guàrdati bene: ricordi?
Lo spazio si contrasse, annullò il passato, compose, davanti alla memoria dell'uomo che camminava di notte, un quadro lontano...
Un esile fanciullo, malato di petto, gioca in un cortile, coi compagni, che sono forti, con la faccia nera di sole. Giocano ai «fondelli»: al soffio. Ognuno vuol vincere; e più di tutti lui, che pure ha la pelle trasparente e i polmoni piccoli, sicchè il suo fiato è meschino, e non riesce a sollevare e voltar sottosopra quattro fondelli messi uno sull'altro. Vince sempre uno, che ha l'argento vivo e a un certo punto, perchè il malato ride, gli dà un pugno petto e lo fa cadere a terra, svenuto. Quando riapre le ciglia, il vinto stupisce di trovarsi nel suo letto e crederebbe al paradiso (tanto è bello il sole sulla parete!) se le mani della mamma potessero nascondere quella brutta macchia di sangue sopra la coltre.

Ora lo conducono a risanare in campagna e suo padre gli spiega che bisogna imparentarsi con la primavera, che è poesia dell'universo.
Ma non è vero! Egli ha visto una tarantola inchiodata da un calabrone, mentre lavorava alla sua tela: e la tarantola non faceva niente di male.
Anche suo padre mentisce. Perchè tutti mentiscono? Gli diceva parole strane, ch'egli non capiva: «legge di ferro», «istinto», «crudeltà necessaria ».
- Tu perchè, per esempio, spacchi le rane, senza ucciderle, prima?

- Perchè voglio vedere come son fatte.
- Così fa il calabrone: la sua crudeltà, come la tua, non esclude la purezza perchè tutti e due siete innocenti.
Più tardi, il fanciullo entra nell'età che si dice ideale, dei sogni e dell'amore: ma la sua giovinezza è povera, atterrita, daltònica; il corpo, invece di irrobustirsi e fiorire, si smagra, si distrugge sui libri, perchè (almeno in questo) egli vuol essere il primo: dipingere col bisturi, salvare o non voler salvare un malato, beffare la morte, vendicarsi della vita: essere un gran chirurgo... Quell'incubo di una notte che s'era addormentato con le mani incollate contro la parete!... Lo ricordava chiarissimo, ossessionante: la smorfia dei colleghi, che lo scansavano perchè era tisico; lo scherno delle donne, che non potevano amarlo nemmeno per pietà: lo smarrimento di se stesso in mezzo al prossimo... Eppoi?... La solitudine cercata come salvezza e diventata isolamento: Lazzaro senza Cristo; morte nella vita: odio! Ed ecco l'ultima avventura che durava da venti anni: la politica! La passione sterile camuffata da impulso ad agire per gli altri; impossibilità di armonizzare il compito alla collettività; delusione dell'orgoglio che, dopo aver deformato il potere in arbitrio, lo vede immiserirsi in germe di sole cause ed effetti nell'inesorabile corso della vita.
Non resta che un'ombra!

Un'ombra che cavalca di notte e non vede la strada ed è costretta a guardare le stelle...
Il sindaco ha paura: improvvisamente, resta il cavallo e dice a Jena:
- E' meglio che tu mi passi avanti: io non ci vedo più.

Pagg. 211 - 228