O. Profeta "Odia il prossimo tuo" CAP. I

Cap. I

Al tocco meridiano d'un giorno di maggio del 1899, dall'aula di don Marco D'Auria, insegnante di prima elementare, si udì il solito coro: “siam bambini - eppur sentiamo - per la patria - un grande amor!”
Subito dopo squillò la campana dell'uscita e dal tetto di San Domenico volarono a stormo i colombi spaventati.
Il vecchio maestro prese il suo parasole grigio, se lo mise a spalla e, mentre ancora i fanciulli gli sciamavano accanto e ciascuno diceva “riverisco”, usci sulla spianata che si apriva davanti al convento ora adibito a scuola, e si affacciò alla balconata di ferro, che da levante guarda mezza Sicilia.

Tutt'in giro, le otto acacie fiorite profumavano l'aria: il silenzio caratteristico dell'ora in cui tutta la vita dei paesi sembra afflosciarsi, e la quieta luce di cobalto che ingentiliva persino le pietre, gli mettevano nel cuore una grande pace.
- … Siam bambini... La cantano bene, questa: soltanto Baddotta stona: ma è troppo piccolo, ancora; e suo padre vende i cardoni...
L'orologio del Comune ripetè il suo tocco: nella valletta sottostante, la macchia verdissima del Poggio si scioglieva teneramente nella soavità primaverile.
- Chissà che stanno facendo, a quest'ora, i miei compari...
I suoi compari sono due « briganti » di cinque anni: Bruno e Santo, i gemelli nati molto tempo dopo Teresa ed Agata, tre anni prima di Letizia: la quale era l'ultimo dono dell'amore che aveva ringiovanita la signora Assunta, la madre, e davvero riempiva la casa di letizia, con quei suoi riccioli neri sulle spalle e il cinguettio di passera in continuo da fare.

Il Poggio, poi, è un pezzetto di terra migliorata, tra pianura e mezzacosta: e serve per la villeggiatura, perchè è a due passi dal paese e c'è ogni grazia di Dio: la casa coi tegoli nuovi, la porta verde, il forno, gli alari, l'altana con l'incannata per stenderci i fichi ad asciugare, e perfino una finestra: un quadratino di cielo che, ai tempi lontani della luna di miele, aveva chiamati più d'una volta gli sposi a volgersi l'uno verso l'altro, come due uccelli portati sul lo stesso ramo.
Ora, bisogna ricordarsi che, essendo maggio, è comparso al Poggio il pennacchio verdenero dell'erba codolina e quello rosato del giunco: dunque, è tempo di spollonatura, non di sogni! E prima dell'Ascensione bisogna interrar le patate, rincalzare i piselli e badare alla fragolaia, che è giunta fino al canneto.
Stiamo attenti, disse a guisa di conclusione il nostro vecchio: e staccatosi dalla balconata. prese a camminare per la via che discende dal Castello, segnata da un binario di pietra della Montagna, smagliante come l'oro.
Un cane, che stava raspandosi nella banda d'ombra radente le case, dopo averlo guardato con paura e dolcezza, gli venne incontro scodinzolando e gli si mise alle calcagna; poi, come il vecchio si fermò un attimo, chinandosi per carezzarlo, gli addentò la mano e fuggì, a salti brevi come sussulti.
Il poveromo non imprecò: piuttosto, a vedere come correva il cane, gli veniva da ridere; andò a lavarsi la ferita alla fontanella vicina, poi non ci pensò più e riprese la sua strada.
All'angolo, sulla piazza, incontrò il sindaco Ragni, che dalla salita di San Giuseppe svoltava in quel momento per andare al Municipio. Visto di fronte, quest'uomo presentava un corpo smilzo chiuso in una palandrana nera e dritta, che faceva risaltare maggiormente le gambe di trampoliere, il busto a triangolo e le spalle di legno, su cui posava un'esile faccia delicatissima, resa ancora più scialba dai pochi peli della “mosca” e dai favoriti di stoppa. Per questo pareva un essere debole o piuttosto un malato vicino a render l'anima: invece, era la forza più diabolica, la volontà più tenace, l'occhio più intelligente del paese: l'uomo politico, che, piantatosi giovanissimo nella lotta e spremendo danaro dalle pietre e paura dagli uomini, era riuscito, in vent'anni di potere, a trasformare un bosco in un paese e questo in una mandra di pecore.

Erano cugini: ma don Marco non lo seguiva in politica. Ora, per giunta, li poneva di fronte un testamento che assegnava a don Marco un uliveto ed era stato impugnato dal sindaco, e la persecuzione ostinata di quest'ultimo che voleva “collocare” Laspina, un suo nipote, al posto di D'Auria.
Perciò, nell'incontro impreveduto, il vecchio, che pure aveva la coscienza tranquilla, sbigottì fino al midollo delle ossa e certo sarebbe impallidito se non si fosse ricordato della signora Assunta.

“Stasera, (gli aveva detto essa, svegliandosi) viene il pretore a farci visita: cerca di portare due ciambelline e un poco di caffè. ”

Egli aveva pensato che, anche se al pretore non avessero offerto il caffè, Agata non si sarebbe lamentata, perchè gli voleva bene, sì, ma era giudiziosa; però il Signore non vuole che si una creatura cosi!... Quando viene maggio, le pratoline devono fiorire: e sennò vuol dire che non è maggio.
Entrò dunque, nella rivendita di tabacchi sulla piazza, dove avrebbe potuto comprare anche le spuntature per sè e il “santantonino” per la moglie.
- Ehi, casa! - disse, scendendo i tre gradini che guidavano dalla soglia al bancone, su cui sciamava una nuvola di mosche intente a imprigionarsi nella pancia d'un'orribile bottiglia piena d'acqua zuccherata. - Non c'è nessuno?
Rispose una voce annoiata, mentre un omettino si sporgeva a vedere, scostando il portale del retrobottega. Poi venne fuori da quel pertugio una sfera di carne, ch'era la tabaccaia e domandò, in un sorriso:
- Che comanda, professore?
- Ecco: vorrei un poco di ciambelline (di quelle di Ména, che son ténere); tre soldi di santantonino, un'oncia di caffè, e le solite spuntature.

La donna scoperchiò un’urnetta di cristallo entro cui biondeggiavano le ciambelle di maiorca: ne prese tre, quattro, e, postele sul banco, andò a pesare il tabacco santantonino.
Stava già spolverando con la zampetta di lepre il piattello della bilancia, quando quel diavolo di mulatto ch'è il figlio di Rusca, essendo entrato in bottega senza farsi scorgere, scattò dall'ombra a ghermire una ciambella: ma la tabaccaia lo prese a volo e cominciò a gridare come un'oca: nè il minuscolo marito, che peraltro non si scomodava a intervenire, poteva in alcun modo calmarla.
Ed ecco accorrere allo strepito il padre del monello (uomo che tirava la vita tra la risuolatura e la politica losca, ed era notoriamente venduto ai servizi di Ragni).
- Mio figlio non lo deve toccare! - si mise a urlare all'indirizzo di don Marco, che trasecolava. Siatemi testimòni. E sollevato il ragazzo che, liberandosi dall'artiglio della tabaccaia era caduto per terra, se lo trascinò fuori come un fantoccio di legno.
- Sarà impazzito! - diceva intanto don Marco, mettendosi in tasca l'involto che la tabaccaia gli porgeva, ora, bell'e pronto. - Meno male che l'avete visto voi, comare Peppa, come stanno le cose: perchè, con quell'anima dannata di Rusca non si sa mai...
- Aria netta, non teme di lampi - rispose la donna. - Per mio conto, se Rusca vuole assaggiare i miei pugni, sono pronta (e si sbracciava).
- Questo perchè succede? Perchè, invece di mandarli a scuola, i figli, li tengono in istrada... A scuola, mandateli! A scuola! - ripeteva il maestro, mentre usciva facendosi largo tra gli sfaccendati fermi davanti la porta a guardarlo come se non l'avessero visto mai.
- Poi svoltò per la « calata » di San Giacomo.



Qualche minuto dopo, Nunzio Laspina, cioè il nipote del sindaco, si affacció al balcone del Municipio, ch'era li di fronte, a due passi e fece segno a Rusca di salire. Rusca non aspettava di meglio e in quattro sgambate fu davanti al sindaco.

Il quale, udito il fatto, stette un momento a pensare, poi disse a Rusca di sedersi al tavolino: gli mise sotto gli occhi un bel foglio di carta bollata, e cominciò a dettargli una querela contro D'Auria.

*

A prendere lo stradone, don Marco sarebbe giunto al Poggio con tutto il suo comodo; ma siccome aveva fame e la scenata col galoppino gli aveva inacidita la bocca, preferì la via del mattaione, che dalla costa scende quasi a piombo sul piano di Rao. Di qui, giunse al greppo del Mancuso, senza incontrare altr'anima viva se non qualche pispola, che rimbalzava nella trasparenza della luce.
-Si fermò al beveratoio davanti allo spettacolo non nuovo del «giannetto » di Grillo, caduto vicino la cunetta, sotto il peso di un enorme fascio di ramaglia.

- O Grillo! - ti s'è coricato il « barduino »? - disse rivolgendosi a un omùncolo dagli occhi acquosi, che faceva sforzi cercando di sollevar l'asino caduto. - Scarichiamolo, và! -

Così fecero: poi lo sostennero per la coda e lo aiutarono ad alzarsi.
- Questo è un asino infame - diceva il Grillo. - Se casca, non lo fa alzare manco sant'Alòj! Qualche giorno lo getto al Garraffo e non se ne parla più.
- Perchè? Vuoi vedere che me lo compro io?

- Arricchisce!
- Ti do quello che ho in tasca: ti conviene?
- Contiamo, prima.

Erano ventidue lire giuste. Si poteva chiedere di più, perchè, chi ha l'occasione e non la piglia, dice il proverbio antico, légalo nella stalla e dagli paglia. Ma il Grillo pensava alla taverna della Lionti e disse che gli conveniva. Quindi si contò i danari più attentamente, si caricò la legna sulla testa e scomparve dietro la fornace dei canalari, che fumava come l'inferno.

Don Marco, dopo avere risciacquato l'asino, ch'era tutto ingrommato di fango, anche per battezzarlo (e lo chiameremo anche noi Pricone) se lo trascinò verso la scorciatoia, che luccicava come il ghiaccio, gli raccomandò di puntare i piedi e tutt'e due, scivolando di peso, presero tale rincorsa, che fu miracolo se non andarono a infilzarsi alla macchia d'ágavi, sulla mulattiera di Zalarella.
Giunsero al Casalino (un muretto di calcinacci tra l'erba) e don Marco, come faceva ogni giorno tornando dalla scuola, si fermò un attimo a guardare nella conca alberata, in mezzo a cui fumavano tranquillamente le tre case campestri dei tre fratelli D'Auria: e cioè la sua, quella di Berto (ad angolo retto) e quella di Biagio, tra gli ulivi, più a destra.
Fra poco, don Marco siederà davanti a un piatto di fave nuove, alla tavola dove la bella tovaglia è sempre bianca. La famiglia! I parenti!
(Tra gli alberi, svolazzava una cornacchia).

E Pricone ragliò, con gran dispiacere del novello padrone, il quale, in tal modo, fu visto

dalle case, prima che potesse preparare una qualsiasi storiella a proposito dell'asino. Eccoli che vengono a incontrarlo: le figlie di Berto (Mariuzza e Annetta) e tutti i suoi, meno la moglie ch'è rimasta ad attizzare il fuoco.
Saputa la “storia” di Pricone, gli fecero una festa: ma don Berto domandò se lo portavano a seppellire, quel trespolo; e siccome il fratello faceva il sordo, andò a prendere l'organetto e si mise a suonare la tarantella per far ballare il “giannetto”.
Le ragazze ammutolirono, prevedendo una delle solite brutte scene tra i due fratelli. Per fortuna, venne la signora Assunta, una donna piccola e dall'apparenza insignificante, ma con due occhi di metallo e una bocca che pareva sgorbiata nel legno. Il marito le spiegò che quell'asino l'aveva trovato mezzo morto di stanchezza, gli aveva fatto pietà e se l'era comprato dal Grillo.
- Sia fatta la tua volontà - concluse la signora Assunta. - Ma ora sbrigati, che è in tavola.
- Gli dò una manata d'erba e vengo.

- Ma gèttalo nel fiume, imbecille! - disse don Berto.
Don Marco era già lontano. presso la stalla: e non potè udire. La signora Assunta alzò gli occhi in faccia al beffatore:
- Come dite, cognato?
Don Berto sapeva che a lei non si poteva dir niente, perchè era come se il diavolo avesse voluto scherzare con l'acqua santa: perciò non le rispose e rientrò in casa, mentre il pomo d'Adamo gli faceva lo stantuffo nella gola.

*

Adagio adagio, l'ombra scese nella valletta. quando ancora le case del paese stralucevano nel sole, che trasformava ogni finestra in un riflettore.
Ecco l'ora propizia per i “briganti” (i tre cuginetti di cinque e di sette anni: Bruno, Santo e Nené) i quali escono nel botro, alla caccia dei granchi, strisciano sulle scarpate, e come scoprono il granchio con gli occhi eretti sopra il dorso a guardare dall'orlo della tana, si fermano e non fiatano più. Allora il capo si fa innanzi, e, mentre il «mostro » precipita nella buca, egli vi introduce il braccio nudo, lo agguanta, lo tira come un tappo e lo lancia lontano. Quindi i compagni lo legano col cappio di vermena e lo appendono a un ramo.
Stasera hanno catturato una « femmina » e la portano in trofeo alle case, dove le sorelle la preparano subito il fuoco per arrostirla, perchè c'è la luna nuova e quindi la “femmina” deve avere la “tabacchiera” piena d'uova.
Intanto gli alberi si ammassano sotto il plenilunio, e ogni lume si spegne nelle case e nei cascinali d'intorno, perchè gli uomini vogliono respirare la luce di Dio, e si sentono consanguinei degli astri.
E' così bello, ora, che pare verissima, anche a don Marco che la racconta, la leggenda di Caino che esce dalla luna per dimenticare la voce di Abele: pare vera a don Marco, che vuole così ingannare l'impazienza di Agata.

- Dunque, Caino esce dalla luna e per non udire la voce di Abele si tura le orecchie. Ma è inutile: Abele è la voce dei fiumi, il belato degli armenti, il respiro di tutte le gemme che si aprono. Tu non ci credi. Agata?
La fanciulla non sa che dire: la stessa armonia di ciò che il padre le dice la guida verso il suo destino che ora è quello di aspettare un giovane, il quale ancora non viene, come ha promesso: e questo giovane è il pretore di Erbita, e certo un giorno diventerà eccellenza.
Ma intanto è tardi: e una grande ansia è in tutto ciò che non è lui.
Ad uno ad uno, i tre fratelli sono venuti con la famiglia nel triangolo d'ombra che le case tagliano sulla spianata. Qui, dove le due casette si puntellano ad angolo retto, si può udire un parlare sommesso e qualche risatella. Ma nell'isolato in alto, tra gli ulivi, a un tiro di schioppo, don Biagio, il maggiore dei tre fratelli, è solo, con la giovane moglie che sgonnella accanto ai suoi settant'anni, gélida come il suo egoismo. Mangiare e bere non basta a scaldarli, perchè a lui manca la confidenza nella propria compagna e a lei manca il maschio: perciò si odiano pacatamente; lei badando a ingozzarsi, ed egli a pagarla coi gettoni d'argento che vanno a gonfiare le calze nascoste nella cassa del percallo, sotto il letto.
Nemmeno in campagna, dunque, ora che anche i pioppi vogliono qualcosa d'alato tra i rami (eppure sono alberi serî): nemmeno questa sera riescono a entrare nella gioia d'avere i parenti vicini: se parlano o toccano un fiore, non sentono.
- Chissà se è venuto, il pretorello! - dice la donna cattiva. - Hai voglia, si! Ora ti sposa!...
Nel silenzio, un tronco d'ulivo si torce come a svellere le radici dalla terra: la scorza si spacca e pare un colpo di pistola.
Ma il pretore non venne, e nessuno poteva capire perché.

pagg. 23-38