Castiglione: Nofrio Giornale

Ancora un racconto breve di Pippo Castiglione, non una macchietta di paese ma la storia di un giovane come ce ne furono a centinaia e centinaia negli anni Cinquanta, di quelli che lasciarono il paese, i raccolti grami, i debiti, la fatica sui campi inondati dal sole,  per emigrare in contrade fredde ma ricche che hanno dato a tutti una opportunità di crescita e riscatto. Molti di loro erano felici di fare la fame per un anno pur di ritornare in estate vestiti bene e a bordo di un macchinone e dimostrare che ce l'avevano fatta; poi negli anni spendevano i loro risparmi per farsi in paese la casa più bella. Le rimesse degli emigrati, le chiamavano, che diedero da mangiare a chi in paese era rimasto. L'intelligenza, la resistenza al duro lavoro permisero a molti di farsi una buona posizione ed integrarsi insieme alle famiglie, ai figli che intanto crescevano lì, tedeschi, francesci, belgi, lombardi e che non vollero saperne di ritornare. Così si è spopolato il nostro paesetto ridotto oggi a meno di cinquemila abitanti. Così gli aidonesi si sono sparsi in tutto il mondo, oltre che in Euopa, in Australia, negli States e nell' America Latina. Perdonatemi la digressione...

Famiglia contadina. Anni Quaranta-Cinquanta

Nofrio Giornale

- U stai canuscenni?

Ero solito d’estate, negli anni del liceo, fare una capatina ad Aidone per fare visita allo zio Tommaso e ripassare con lo sguardo le note forme del paesaggio impresse nella mente fin dai tempi dell’infanzia: le ampie pianure ondulate colore del grano falciato, i profili fuggenti dei monti Erei lussureggianti, le balze della Cittadella, territorio di scorribande venatorie, lo stradone polveroso che si inerpica, curva dopo curva, fino al paesello.

- U stai canuscenni? - mi ripetè lo zio Tommaso, una volta entrato nel negozio e scambiati la stretta di mano e i baci sulle guance.

L’uomo che mi presentava, sulla trentina, robusto e ben rasato, indossava pantaloni blu misto lana e una camicia a quadrettini azzurri aperta sul petto dove troneggiava un Cristo in croce appeso a una pesante catena d’oro; poggiava, con le mani dietro la schiena, ora su un piede ora sull’altro, mostrando i suoi eleganti mocassini blu.

- Nun stai canuscenni? E’ Nofrii, Nofrii Giornali.

Come all’alzarsi di un sipario, si aprì nella mente una scena vecchia di dieci anni: io, mio padre e mio fratello, Nofrio e la sua famiglia sull’aia, attorno a un mucchietto di grano.

Nofrio Giornale era stato mezzadro al Ciappazzo, la tenuta che mio padre cedette a mezzadria quando, abbandonando il suo mestiere di coltivatore diretto, si trasferì da Aidone a Raddusa, nel 1954, per intraprendervi un’attività commerciale.

Nofrio, rimasto orfano di padre ancora ventenne, si trasferì nei luoghi della mia infanzia assieme alla madre donna Carmelina e al fratello Lorenzo mio coetaneo; prese in custodia casa e terreni, le due giovenche, la mula Baronessa e la giumenta Gina. E i due cani, Diana e Turco.

Nofrio si tuffò con lena nell’impresa, sempre indaffarato ora ad arare e seminare, ora a mietere e trebbiare. Le sue giornate non erano abbastanza lunghe, d’inverno con la pioggia, d’estate con il sole. “Grande lavoratore” - diceva chi aveva modo di conoscerlo – con la madre sempre al fianco e il fratello al seguito con i piedi dentro le sue orme; sempre vestiti di nero, i fratelli con il tasco in testa, la mamma con il fazzoletto legato sotto il mento.

Mio padre li sostenne per l’intero anno, fornendo le sementi al tempo della semina, la liama al tempo della mietitura, anticipando il grano - per farne pasta e pane - che spillava, due sacchi alla volta, dal cannizzo custodito nella casa colonica. Ciascuno fece la sua parte e si diede appuntamento davanti a quel mucchietto di grano nel mese più caldo dell’anno con le bestie a sonnecchiare nelle stalle e i cani accasciati sotto la tettoia con la lingua penzoloni.

Tolto questo, tolto quello, al momento della spartizione – questo per le sementi, quello per il soccorso – a Nofrio restò poco grano e molto sconforto, a me un senso di imbarazzo perché vedevo che tutti erano tristi.

Donna Carmelina si incaricò di tirare su il morale:

- Ninti, a ma’, nun ti biliari. Pi San Larenzi ti catti u cappeddi.

Per San Lorenzo, a chiusura dell’anno agricolo, l’aidonese faceva spesa, quanto meno rinnovava il cappello. Del motto di donna Carmelina facemmo memoria.

Si concluse così la vita agricola di Nofrio Giornale, grande lavoratore, che cambiò mestiere anche lui, come mio padre e tanti altri paesani, e da Aidone emigrò in Germania con la sua pesante valigia di cartone; andò a fare l’operaio, un mestiere ad ore fisse – estate e inverno, al riparo sotto un tetto – che gli dava uno stipendio e le ferie nel mese di agosto per tornare al paesello, con i mocassini ai piedi e la mercedes parcheggiata in bella vista nel Piano di Santa Maria, la piazza principale.

Le giovenche, Gina e Baronessa furono vendute alla fiera del paese. Diana e Turco cambiarono contrada.

Pippo Castiglione