Il gallo cantò invano

Questo articolo racconto di Lorenzo Pittà è stato il primo o il secondo che ho letto e confesso che mi ha aperto un mondo.  E' un testo che mi ha emozionato moltissimo, lo rilascio senza commenti perchè credo che spettino a ciascun lettore. Ringrazio ancora una volta Vittorio Lingenti,che fin da l'inizio, due anni fa mi ha coinvolto nell'apertura e valorizzazione di quella casa ereditata dalla mamma, che anche il suo papà aveva voluto lasciare intatta, facendo solo quei lavori di consolidamento che hanno permesso che si conservasse. Vittorio, insieme all'associazione Custodi della Terra, ne ha fatto una casa museo, A Casa du Masser, che ci permette di vedere come si viveva fino alla metà del Novecento nella casa di una famiglia di agiati contadini (con il termine masser, massaio, in Aidone si indicava infatti il piccolo proprietario terriero che viveva del suo lavoro, aiutato spesso da braccianti ma anche da serve di casa). Nel momento in cui Vittorio ha cominciato a fare ordine tra le carte dello zio certo non si aspettava che molti dei ritagli di giornale conservati gelosamente erano racconti o articoli di vario argomento scritti dallo stesso Lorenzo Pitta e pubblicati in giornali dell'epoca, quotidiani del nord Italia ma anche nelle pagine culturali della Sicilia. Alla meraviglia e alla voglia di condividerli subito con me (nè Vittorio nè suo padre hanno mai dimenticato i lunghi pomeriggi estivi in cui aiutavo un adolescente studente a recuperare greco e latino!) è subentrata la commozione e poi l'emozione mista a pudore con cui abbiamo continuato insieme a "frugare" fra quelle carte scoprendo un personaggio molto diverso da quell'uomo mite e quasi timido che io avevo nei miei ricordi di ragazzina.

"Il gallo canto invano" - Corriere della Valtellina - 30 gennaio 1965

Nelle sere di capodanno il babbo ed io andavamo dal nonno che abitava dall’altra parte di quel mio paese di Sicilia. Allora è tempo che non si lavora tanto. La terra seminata pare aspetti quietamente che il seme dia alla luce i germogli, e anche gli uomini sembra stiano in attesa: è una religiosa attesa di uomini e cose.

Il nonno aveva avuto molti figlioli ed erano tutti in vita: allora. Le ricorderò sempre quelle sere, così liete e rumorose per i tanti parenti che si davano riunione. A casa mia venivano invece poche persone e i visi più noti erano di quelli che badavano alla casa e a fare il pane per la campagna. Mia madre era sempre ammalata e forse alla gente non piaceva sentire come soffriva: me ne è rimasto il segno nell’anima. Così i vicini e i parenti per lo più ci venivano di tanto in tanto e per convenienza.

Ma dal nonno si era così allegri invece. Mio padre per l’occasione mi metteva sotto un largo mantello dopo che mia madre mi aveva imbottito di lana. Poi fuori nella strada, anche se il vento, in quel quartiere che è il più alto del paese, pareva ci dovesse far volare. Ricordo che era così forte che se veniva di dietro noi si correva, senza muovere passo, portati da quelle ventate.

Io mi tenevo alla giacca del babbo che con ambedue le mani doveva badare al vento, acché non gli portasse per aria il mantello, come accadde una volta. Sembrava un uccellaccio nero che volasse a testa di uomo, quel mantello. Ma fu per poco; e noi che scoperti si era rimasti ridendo a vederlo volare poi corremmo a prenderlo, mentre stava per cadere nelle pozzanghere.

Mia madre quelle sere che uscivamo temeva sempre per la mia salute, e nella sue voce c’era come una preghiera perché desistessimo dall’uscire. Ma io dietro i vetri soffrivo al pensiero di starmene a casa, mentre fuor nella strada gli altri bambini andavano rincorrendosi gioiosi.

Era l’ora che si accendevano i lumi, qua e là per le finestre e i balconi della metà del mio paese, situata sulla pendice di levante. Casa mia stava in alto, sul dorso del monte. Dietro aveva l’altra metà del paese che non si vedeva, essendoci di mezzo la casa dello zio.

Dal nonno noi ci arrivavamo sempre gli ultimi. Il babbo non sapeva se dispiacere alla mamma o a me. Poi essi cedevano ai miei occhi, che dovevano essere tanto supplici.

Com’era bello dal nonno! Si faceva un gran, cerchio attorno al braciere e si rideva per un nonnulla. Un cerchio di zii e zie e cugini della mia età e cuginette grandette, e il nonno che a quelle risate non sapeva che pesci prendere, egli che era così imponente nell’aspetto da mettere soggezione quando batteva il suo bastone a mò di ciambellano.

Ricordo che le cuginette quando ridevano riversavano all’indietro la gola e tutto il giovane busto e non la finivano più. Chiostre di denti bellissimi e bianche gole e risate squillanti, come argento, e su tutte quella di Teresa, la povera cugina troppo presto morta. Il nonno era un vecchio alto dalla barba bianca, così lindo che a me sapeva di buon profumo. Aveva gli occhi piccoli e furbi, le ciglie cespose, la bocca pìccola. Il suo viso avrebbe fatto la gioia di un pittore che ne avesse avuto bisogno per un patriarca.

Ma il chiasso più forte era quello di noi piccoli. Finiva che il nonno perdeva la pazienza, e quando si alzava a rimproverarci, noi scappavamo fuori nel cortile e andavamo a nasconderci nella cantina. Questa era buia, con due enormi botti che la occupavano per metà. Che altro ci fosse là dentro non ricordo. Il pollalo che era nel sottoscala del cortile, accanto alla cantina, è rimasto in invece nella mia memoria, tra i ricordi di infanzia più vivi. Credevo che le galline russassero, mentre il gallo stesse all’erta a vegliare e che potessero anche sognare. Ci perdevo delle ore in queste fantasticherie ! Le bestie pendevano da certi grossi fili di ferro disposti a mò di piuoli di una scala, il loro buffo respiro proprio delle galline e lo spavento che le prendeva quando noi entravamo gridando nel loro regno, non vi so più dire.

Ma ora che ci ripenso il ricordo del pollaio è legato al canto del gallo, perché il nonno diceva che se il gallo cantava pari sarebbe stato bel tempo, se dispari cattivo tempo; e questo vale sempre molto per la campagna. Né era mai successo che il gallo lo avesse tradito.

A quel primo canto, ricordi Maria? Ogni voce taceva, ogni risata si troncava a metà, si tratteneva perfino il respiro. Il gallo aveva la più bella delle voci: cantava, quasi sapesse che noi stavamo a sentirlo, con consumata maestria. Pareva anzi volesse ogni notte dare saggio delle sue possibilità canore, modulando un grande arco di note limpide e compiute. Al suo chicchirichì rispondeva nella notte fonda altro gallo ed altro ancora. Pareva si dessero la voce chissà per quale intesa! ,

Il nonno, quando il gallo finiva di cantare si alzava ed era come se ci desse la buona notte. Quante volte pregai perché potessi rimanere a fargli compagnia. Sarei potuto cadere ammalato e per questo non mi accontentarono mai.

Ma quella lontana notte del 4 gennaio, io finalmente ci potei rimanere. Ero andato verso sera a portargli il pranzo, e lo trovai nel suo grande letto col viso disfatto. Mi disse che si sentiva male, ma mi raccomandò di non farne parola con alcuno, perché tutti gli zìi ci avevano qualcuno ammalato in casa, in quei giorni. Mia madre, come seppe del nonno, per quella notte mi mandò da lui. Mio padre invece era in campagna e quando venne fu la prima volta che lo vidi piangere: il nonno spirò il giorno dopo.

Quella notte che ci rimasi non disse parola. Apriva gli occhi a guardarmi e li richiu-deva subito. Aveva le sue belle e bianche mani fuori dalle coperte e ne vedevo battere le vene azzurrine. Io guardavo per quella stanza, dalla semplicità francescana, il San Giuseppe del capezzale, i grandi stivali neri del nonno, la cassapanca dove erano chiuse le belle monetine che ci regalava nelle feste, ma dove si diceva che c’erano anche state quelle grosse che erano servite a comperare le belle terre di Lazzaretto, guardavo il lettino ove dormiva la nonna quand’era in vita.

Poi dall’orologio della vicina piazza sonarono tanti tocchi e il gallo cominciò a cantare. « Nonno - dissi - non senti? E’ il gallo che canta. Domani sarà bel tempo, sarà bel tempo domani ». Ma il nonno non aprì gli occhi e quella notte il gallo cantò invano. Lorenzo Pittà

* Pubblicato il 30 gennaio 1965 sul Corriere della Valtellina nella rubrica Il racconto della settimana