Ottavio Profeta Il mio vasaio

Ottavio Profeta 

da "Sicilia Favola vera"  vol II, Pagg. 60-64

Le figure

Il mio vasaio

“era soltanto « antico », a simiglianza del muro che cingeva il suo tornio; o come i rami di quel fico, oltre la siepe; o come la terra erbitense, istoriata di millenari ricordi.”

 

Ce n'è, si può dire, in tutta l'Isola dovunque un gruppo di case si metta a cavallo d'un torrente, in vista d'una valle, sul ciglio d'una roccia, all'ingresso o all'estremo degli abitati.
Vasaro di monte o di piana, pare sempre lo stesso, sempre quello: fatto d'argilla, patinato di polvere verdina a combinare sempre la stessa figura.


Ma se chiudo gli occhi un momento, rivedo il « mio » vasaro, quello del mio paese, forse nato dall'Herbita greca (con la sua cittadella in basso, dove ancora si scava a cercare statuine e anforette di coccio ; e - là, in alto, il castello saraceno che seppe gli amori di Macaldai, ora ridotto a due pietroni enormi che s'abbracciano nel cielo, entro cui stanno sospesi da secoli).


Il mio vasaro avea casa alla Fontana, là dove le vallate di Ciappa fanno blocco tra i piedi degli Eréi, e le strade, senza mistero, tendono al cielo altissimo ed aperto, come dopo una pausa sofferta nel buio. Fiumi e torrenti vi nascono d'intorno, in una famiglia di colline che stanno a guardarlo col volto d'arenaria dorata e d'argilla azzurrina, tra boschetti d'acacia e prati ver deggianti.

Quella casa, nascosta da antiche pietre ruinate e alberelli di gambe sottili, respirava tra cespuglio e cespuglio in un mondo miracoloso, e furtivo; e i miei occhi di fanciullo non ne avevano visto mai una più scagliosa di mistero e di luce, più nuda e ricca, e affascinante. Era là, vicino al fiume, dove le lavandaie sciorinavano la spuma candida di lini, e noi sfuggiti al sonno meridiano andavamo a fare il bagno, tuffandoci tra le rive cretose e le libellule, che tessevano voli circolari tra un giunco e l'altro.

Dal fondo, piccoli gorghi s'aprivano intorno ai nostri corpi nudi e felici; salivano bollicine floreali di un bianco azzurro; e intanto i piedi sparivano in un velo glàuco, diventavano radici d'un verde sulfureo, posavano finalmente sul filone argilloso, liscio liscio e zebrato di giallo e di turchino.

Così feci la prima conoscenza, il primo incontro con l'argilla : materia eterna e mìtica, da cui Dio trasse l'uomo. Chi me n'avea parlato, quando ancora il cervello vagava in mezzo ai fuochi fatui delle prime fantasiose architetture? Non so; ma credo che la prima propaganda alla creta la fecero per me quei muratori che, dall'alto dei “castelli” e delle travature sfocianti sopra i tetti, giocavano a lanciarsi di lontano le tegole rosse accoppiate, che a me parevano elastiche, ariose, alate, mentre passavano di mano in mano, con volo lieve e silenzioso.


Non domandavo, allora, d'onde venissero, da quale trasformazione nascessero le tegole: venivano (come tant'altre cose della beata infanzia) dal paese incantato che non si sa dove sia, ma che esiste certamente.

Più tardi, andando avanti nella presunzione che si dice esperienza, qualcuno (certo, mio padre) mi mostrò la fornace delle tegole, laggiù al Mancuso: tutt'accesa come l'inferno, in mezzo a un terreno tufoso ove il gioco della pioggia e del sole improvviso aveva ordita una rete di ciotole che parevano foglie d'argilla; e appresi che la creta e l'argilla sono “materia plastica” per modellare a piacere il padre Adamo, o la testa d'un ciuco da eternare in monumento.


La curiosità per l'argilla, dunque, ebbe radici bibliche anche in me. Tuttavia, ai miei occhi, essa fu prima d'ogni altra cosa il mio vasaro della Fontana con la casa sul filo della strada.

Qui venivano le montanine, a cercarvi il vasetto pei gerani o pei garofani. Giungevano, alcune chiuse nella mantellina, altre nello scialletto. Sceglievano dopo meditazioni e confronti silenziosi; poi si portavano anche l'anforetta per l'acqua fresca, sotto lo scialle o la manta.


Lui, il vasaro, piantato sulla ruota accanto al còfano della creta, allungava una mano a ricevere il prezzo; e subito tornava al moto uguale del piede sulla ruota; afferrava un blocchetto di argilla, pura di grùmoli o di scorie; lo piantava in mezzo della ruota, e (inumidito il pollice nel baciletto d'acqua, là vicino) cominciava con quello a dar la prima forma.


Non parlava mai: forse chiuso nel silenzio dall'attenzione a non sbagliare o sciupare l'arcata o l'anello o il serpentino (che gli nascevano quieti e obbedientissimi sotto il massiccio palmo della mano) o dalla solitudine istintiva del suo mestiere, antico e un po' fluviale, che gioiva a carezzare la più povera e buona delle materie prime.


Vecchio com'era, bianco di barba e di capelli, a me pareva non avesse età, fatto per lo stupore mio, di fanciullo curioso. E forse, davvero, era soltanto «antico», a simiglianza del muro che cingeva il suo tornio; o come i rami di quel fico, oltre la siepe; o come la terra erbitense, istoriata di millenari ricordi.

Faccia adusta nel sole dei secoli; mani a corteccia; collo rugoso; gesti lenti immutabili precisi: continuativi d'una età senza tempo; occhio fermo, volto senza sorriso.


Eppure ci vedeva, noi (quando giungevamo, a frotte): piantati sulla soglia, muti muti; poi più vicini, un passo dietro l'altro, più vicini, fin quasi a sfiorarlo: il suo piede continuava a premere come in un palpito, sul pedale del tornio; le mani seguitavano a chiudere, a carezzare, a strangolare tra le palme massa argillosa: la premevano quasi senza toccarla, col pollice, col mignolo, con l'aria. E si vedeva, la vedevamo vivere, crescere, formarsi a poco a poco sotto quella mano, allargarsi, restringersi. arrotondarsi, incompiuta, compiuta, di nuovo cambiar forma, tornare a farsi snella, gonfiarsi alzarsi girare girare, aver finalmente sostanza di cosa creata e ricreata.


lo guardavo quel nascere come sempre avevo guardato l'acqua del Gurnalonga o del Simeto frangersi di pietra in pietra, di liana in liana, ora attorno a un 'isoletta, ora contro l'arena delle sponde. Guardavo quel fiorire dell'argilla come sempre avevo guardato le rose, nel giorno di “Scèusa”, che è la nostra Ascensione.


E avrei voluto non crescere più; perpetuare il mistero quasi religioso che mi dava la virtù di quelle povere cose di creta fatte in silenzio, da un uomo fedele alla terra.


Invece un giorno il mio vasaro s'accorse dello stupore che mi luceva negli occhi infantili.

 

Senti che crescevo e che la ruota sua non poteva più bastare al mio mondo fantastico.

Allora volle parlarmi e si distrasse: e, in quel rompersi del ritmo, la creta continuò a girare sotto la mano inerte, finchè sfrecciò fuori dal tornio, e mi cadde vicino, senza forma.


Ora capisco il silenzio del vasaro, che è segreto d'amore: condizione immortale di armonia.

iMacalda di Scaletta, 1240-1308. Dama e cortigiana siciliana vissuta al tmpo dei Vespri