O. Profeta "Odia il prossimo tuo" CAP XV

CAP. XV

Pappardedda ha risuscitato il suo presepe, col cacciatore che spara: ma il sole è torbido; c'è nebbia; la tramontana spazza le strade, chiude le porte delle botteghe e i fanciulli non vedranno la gala di stagnola per le cervette di caciocavallo esposte nelle vetrine. Meglio che anche lo zampognaro, come la neve, non ci sia: don Marco è innocente, eppure, dietro un'infame finestra, la sua faccia è spartita in quattro nel segno della croce; e Tenerelli, il capoguardia, lo chiama a colloquio con la fa- miglia: tre donne, due fanciulli e una bambina, nel cortile, dietro il cancello.
Eccolo: ... « anche la steppa fiorirà, nella gloria del Libano ». Giunge dalla vicina chiesa l'ondata dell'organo: «... vi trarrò dall'afflizione e sarete saziati di pane: poi che il vero pane è col Sogno ed è necessario che anche la spada si pieghi al Sogno e lo serva ».


Infatti, per la Candelora, venne la libertà provvisoria e don Marco potè tornare nella sua casa: aveva la faccia più bianca e gli occhi infossati; guardava i figli e il respiro gli si affannava nel petto, mentre la moglie, che aveva trovato chissà dove un resto di farina, friggeva le focacce imbottite di cipolline calabresi. Come sono smagriti, tutti! Hanno le faccie gialle, la pelle disseccata, le vene delle tempie turchine. E con quale avidità guardano le focacce! Hanno la bocca piena di saliva. Dio! Che cosa hanno mangiato durante la sua assenza? Come hanno acceso il fuoco, ora che non c'è più nemmeno la legna del Poggio? Che è successo? Agata, ogni volta che passa davanti allo specchio appeso accanto alla credenza, si ferma a guardarcisi dentro, tenendosi la fronte. Teresa pure, ma quasi sorridendosi: forse hanno perduto la memoria.
La sera, due «mascherati» vennero a picchiare alla porta, ubriachi fradici sotto le coltri annodate a ciuffo sulla testa: volevano ballare, perchè, a carnevale, si balla; i loro visceri caldi di vino fumavano nel rovaio che agghiacciava la casa, dalla porta spalancata.
Non si poteva mandarli via: e don Marco dovette sedersi al cembalo e suonare.
Allora, quelli che sfangavano di quartiere in quartiere in cerca di «suono », si fermarono in cortile, a orientarsi; poi, s'avventarono alla scala e irruppero nel camerone, in un gurgito di fanghiglia e di tanfo: ballavano, si facevan serî come nemici e s'incollavano alle pareti, in giro per la stanza. Finchè l'urlio piegò la stanchezza, si spense nella smorfia inchiodata alle maschere di cartone; e tutti se ne andarono.

Giunsero le Ceneri, la settimana santa, il silenzio delle campane legate, il crepitio delle battole, le «laudate» dei contadini, dietro le porte delle chiese. Il senso del dolore tornò a ingentilire il popolo: fiorirono i Sepolcri; le fanciulle si scambiarono i bianchi germogli del grano nato al buio, nell'acqua delle fiale consacrate; le «piangenti» andarono a custodire l'Urna, tra i mosaici di sabbia e gli altari in lutto.
E Pappardedda mise in ordine i Santoni, cioè gli apostoli di cartone che ogni chiesa aveva in dote: a San Pietro ridiede la chiave, a San Paolo la spada; a uno avvitò il diadema, a un altro tinse i baffi; a tutti, poi, rinsaldò le gabbie di legno che modellavano il cavo del torace e sotto cui si sarebbero collocati i portatori, per Pasqua.
Così, nella gloriosa mattina, i Santi poterono uscire a cercare il Signore; e, trovatolo che aspettava tra i giudei e i confrati in sacco bianco, andarono a dirlo alla Madonna e fecero sciogliere le campane.
Allora don Marco sollevò i bambini per le orecchie, allo scopo di farli crescere sempre «latini» cioè dritti; e siccome nella nottata doveva partire per Caltanissetta perchè il processo era già istruito e «domani c'è l'udienza», andò a continuare il lavoro iniziato torno al carretto. Il quale era una specie trabiccolo scialbo su due ruote, tra le cui fiancate egli aveva curvato un triplice ordine listelli incrociati con ritortole di vimini e stipa, in maniera da farne una mezza cupola sulla quale era tesa una coperta tessuta al telaio, di quelle dette «frazzate»; mentre sopra la cassa del carretto, dal tavolaccio davanti fino alla spalla, era fortemente legato un materasso.
La sera, a due ore di notte o più tardi, scese nel cortile con la lanterna accesa, che era quelle a tre vetri, col serbatoio per l'olio, piccolo piccolo, e il crocco di ferrofilato per appenderlo al rabesco, tra le ruote del carro.
Alla prima rampa della scala, rasentò un'ombra e, alzata la lanterna, riconobbe Giudé, con la faccia tagliata ad angoli, nel gioco della luce; gli occhi da sepolto vivo e il naso immerso nel buio.
- Ti sei deciso? - gli disse, confortato al pensiero che avrebbe avuto un compagno viaggio. Bravo! Allora, attacchiamo.

Giudé, senza rispondere, andò a trarre l'asino dal sottoscala dove l'avevano allogato, ora che anche la stalla era affittata; gli mise i finimenti e lo spinse tra le stanghe; agganciò le boccole ai crocchi del sellino, le tirelle al pettorale, e disse:
- Dov'è la coffa?
- Non l'ho: ma c'è il sacco della crusca, legato al portello di sinistra; a destra ci mettiamo da mangiare per noi.
Così fecero, infatti, quando la signora Assunta portò un cesto dal cui coperchio malamente chiuso sporgeva il collo d'un fiasco e una treccia di pane e s'indovinava un triangoletto di formaggio e qualche arancia.
Poi vennero le figlie; abbracciarono il padre tuffandosi nel suo petto; la signora fece le ultime raccomandazioni, Giudé tirò le redini e il carretto si mosse, uscì dal cortile, svoltò all'angolo della strada, ove un lampione semispento balbettava nella notte.
A punta di paese, don Marco si coricò sul materasso, con gli occhi al cielo; e si sarebbe addormentato se il carretto, giunto al Passo dei Giudei, non avesse preso uno scossone. Allora guardò a sinistra e riconobbe le due pareti strapiombate ad angolo sullo scolatoio nero che scendeva dal labbro della scarpata; rivide le gobbe delle colline del «poligono», nude come tanti calvarî su cui le artiglierie di Re Vittorio venivano ogni anno a fare i tiri; eppoi, a destra, il Dragofosso! Ripensò la sortita della guardia nazionale, ai tempi di Garibaldi, contro Afàn de Rivera, che ritirava le truppe da Caltanissetta: ventinove maggio 1860.
Che buffonata! Per ingannare il nemico, s'eran disposti uno ogni cento metri sul ciglio della balza, e, scarseggiando anche di munizioni, avevano simulata la fucileria battendo senza tregua su quante lastre di metallo, padelloni e latte vuote avevan potuto trovare in paese.
E il generale aveva cambiata strada, giungendo più tardi a Catania.
L'epica farsa! Un po' tutta la sua vita era stata così: bagliori di poesia, sogni ricacciati nel gorgo della realtà meschina. Pazienza! Intanto faceva freddo, perchè calava il sereno:
ecco la chiesetta della Noce, il bivio, tra due file altissime di pioppi; e laggiù, Grottacalda: la zolfara, la porta dell'inferno: e, più lontano, sull'anfiteatro dei monti che digradano al piano, Enna, Calascibetta, che si guardano dal cielo.
A poco a poco diradavano gli alberi, le case, i pagliari. La campagna si faceva sempre più solitaria ed estatica. Giudé non aveva più voglia di cantare.
E don Marco dormiva.
 

Dormire: come si può dormire, con questo chiodo nel cuore?
La signora Assunta dubita. Non riesce nemmeno a pregare: ogni parola naufraga nella solennità del silenzio; più in là del pensiero, il misterioso senso di colloquio tra le creature e Dio, le toglieva ardimento, come se ciò che avrebbe chiesto la sua bocca le fosse a priori negato dalla fede.
Le avevano insegnato le orazioni pei vivi e per i morti; le parole e i suoni per ogni rito: quali potevano essere i termini precisi coi quali avrebbe dovuto chieder la grazia che le bisognava? Non sapeva che, nel dramma della preghiera, si può giungere al cielo oltre ogni regola o esercizio, col solo soffio dello Spirito. Si turbava, come una bambina, come una colpevole: le tornava improvvisamente alla memoria, e l'atterriva fino alla pazzia, il suo gesto di scongiuro, dopo il quale s'era svegliata senza coscienza, tutta rotta nelle giunture, stanca, sola, col marito in càrcere e i figli che aspettavano il regalo dei morti. Per terra era caduta! Sui mattoni!
Certo, questo era il segno! Che cosa volevano, insomma, il Signore e la Madonna!? Volevano distruggere la sua casa? Annientarla? S'inginocchiò sotto il quadro della Vergine Nera di Monserrato, presso l'alcova cui dormiva Letizia: i maschietti erano rimasti nella stanza delle sorelle, sorpresi dal sonno.
Tutta curva, coi gomiti sul grembo, le mani intrecciate sotto il mento, si raccolse nella preghiera: Eccomi innanzi a Voi, gran Regina dei Cieli...
La Madonna stagliava su una fuga di monti color sabbia, così rigidamente ammantata da comporre il disegno di un triangolo; e, dentro a questo, un altro triangolo, più piccolo, chiudeva il Bambino, anch'esso nero, con gli occhi tondi e azzurrati come bacche di mirto e la mano a réggere la sfera terrestre, sormontata dalla croce: entrambi i volti erano duri, senza sorriso, e circondati da una raggiera di stelle.

- Eccomi a Voi...
La Madonna ha udito: ma ora ha gli occhi tristi e si volge a guardare Letizia, che dorme nuda come un boccio di rosa tra i petali della camicina.
Nello stesso tempo, di là, nel camerone, ecco un rumore di passi: lievi, ma chiari, orribili, strascicati.
La signora Assunta ebbe paura: tanta paura, che restò inchiodata al suolo, con gli occhi spalancati, le orecchie attente, la gola stretta, il collo contratto nella impossibilità e nello sforzo di girarsi. Cominciò a sudar freddo e mille domande, mille pensieri scoppiarono contemporaneamente nel suo cervello.
I ladri? Non hanno che rubare.
Le ragazze? Sono andate a dormire.
E allora: gli spiriti? Ah, no, no, no!
Voleva farsi il segno della croce, ma aveva le braccia morte: attese un attimo: silenzio. Ancora un attimo: riuscì a volgere la testa: la camera era piena di penombre saettanti: il pomo della maniglia (sulla porta del camerone) è un occhio di fosforo; un mattone più rosso (verso la finestra) è una macchia di sangue. Aiuto! Aiuto!
Chi ha gridato?
Lei no, seppure ha nelle vene il rombo d'una voce potente: è riuscita a farsi il segno della croce, invece; si alza, solleva adagio adagio la cassa della biancheria, che è vicino la porta, facendola girare sullo spigolo come sopra un perno; poi la lascia calare millimetro millimetro, sostenendola col petto, con le dita con l'unghie, fino a posarla sulla porta come un puntello.
In quel momento, Letizia prende a piangere nel sonno: tutta la casa è un urlo! La povera donna, coi capelli pieni di brividi, balza sul letto, si strappa camicia e preme una mammella sulla bocca della figlia.
Letizia si addormenta a poco a poco, mentre la bocca le si va facendo sempre più lieve; poi abbandona il capezzolo e resta con le labbruzze aperte tra le mani di cera.

 



Ma all'alba non si desta: non gioca come ogni mattina, coi suoi piedi paffutelli: arde di febbre, si lamenta, si torce in un sonno lìvido, invincibile. Sua madre la guarda, e, nel ricordo della notte paurosa, sente d'averla uccisa col suo latte: rabbrividisce, è annientata: non sa nemmeno reagire con la speranza a questa terribile certezza: le pare d'essere già fuori della vita e che questo sia un dolore già sofferto e superato dalla sua stessa morte. Il termometro scotta. Sul viso dell'innocente passano ombre che le increspano la fronte e la bocca.
Il medico non viene.
Ecco il pomeriggio: ... i passeri che tornano all'acacia del cortile, volteggiando tra i rami: le campane: la sera. Il medico non c'è.
Bisogna, dunque, vegliare senz'altro aiuto che le preghiere e la memoria dei gesti e delle parole di Letizia.

Ancora un'alba! Il tramonto!
Un altro giorno passato così, soli; e sempre la stessa voce, ogni mezz'ora, per dire che il medico non torna; quelle manine diàfane con l'unghie verdi, quegli occhi velati che guardano tutti.
Oh, quest'invocazione! E non potere nulla, nemmeno dare il proprio sangue per salvarla...

Lui solo, Ragni, il maledetto, può fare il miracolo: chiamàtelo, correte, corri...

Eccolo, il medico prodigioso: è entrato nella stanza angosciata, senza salutare, pallido di emozione: la sua mano di scheletro s'è messa a interrogare il corpicino della malata, che brucia; il suo volto si chiude, diviene più oscuro.
- E' grave?
Ragni non risponde: scrive una ricetta, la posa sul tavolo; poi se ne va, lento, muto, enigmàtico, mentre lo sguardo della signora Assunta lo. segue, chiaro come un'accusa del cielo.
E il terzo giorno, appena il sole irruppe a grappoli d'oro nel tramonto, Letizia spalancò improvvisamente gli occhi, che parevano di smalto.
- Ho sbagliato dimora, voleva dire; ho corso il rischio di restare dove non saprei vivere, ora che ho udito e visto tante cose! Chiamate i fratellini, che mi bàcino, prima d'andarmene. Poi, riprenderemo il gioco incominciato ieri...
I due fratelli vengono a baciarla: finchè qualcuno li accompagna nell'orto, dove una lucertola pare che li aspetti, ferma a guardarli dall'aiola della salvia.
Allora, tutta la terra diventa una strada bianca, dove i pensieri sono alberelli fioriti tra le foglie verdi.
Letizia scende dal letto e, mentre la sorella maggiore le chiude gli occhi, con l'indice leggero, entra in questa strada e cammina, con la testa piegata di lato, come se dormisse.

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